"la farfalla granata"? per ricordare meroni meglio "sfide" o il guerin sportivo...

Creato il 18 novembre 2013 da Carloca
                                Alessandro Roja, incerto protagonista della fiction Rai
E' stata una vicenda così tragicamente romanzesca, quella del calciatore Gigi Meroni, ala dal talento purissimo stroncata nel fiore degli anni, che una trasposizione cinematografica o televisiva era prima o poi inevitabile. Dovremmo quindi ringraziare la nostra tv di Stato per aver fornito una propria lettura del percorso umano e professionale di questa vedette del football italiano anni Sessanta? Beh, andiamoci piano. La fiction "La farfalla granata", andata in onda la settimana scorsa sugli schermi di Rai Uno, di lodi e ringraziamenti ne merita ben pochi: vediamo perché. SVARIONI STORICI - Leggendo qua e là in rete, sbirciando soprattutto nei siti e nei forum di tifosi di Genoa e Torino, le due squadre che hanno segnato la brevissima traiettoria agonistica di Meroni, il sentimento preponderante era l'emozione, soprattutto fra i più "anziani", perché quest'opera ha in fin dei conti risvegliato ricordi, rimpianti e dolori mai sopiti. Li comprendo perfettamente, ma un'analisi più fredda, tecnica e rigorosa di questo "sceneggiato" (così si chiamavano una volta le fiction) mi impone di andare oltre e di non accontentarmi di questa mozione dei sentimenti. Perché a ricordare la figura di questo atipico del pallone, classe cristallina, colpi da campionissimo e carattere controverso, avevano provveduto ottime produzioni letterarie e documentari televisivi. "La farfalla granata", invece, non ha reso un buon servizio alla memoria di Meroni. Non mi riferisco ad alcuni svarioni storici già da altri sottolineati, come l'Inter - Torino del famoso gol in pallonetto  a beffare Sarti e Facchetti trasformata in un Torino - Inter, o come, soprattutto, il gol su rigore alla Sampdoria nell'ultimo match prima della scomparsa, gol mai realizzato nella realtà. Casomai, mi ha dato più fastidio vedere il Genoa, nella parte iniziale, allenarsi sul terreno "di casa" (?) dell'odierno Olimpico di Torino, già Comunale (possibile non vi sia stata la possibilità di operare riprese all'interno del Luigi Ferraris?). AMORE, SOLO AMORE... - Ma sono peccatucci veniali: trattandosi di fiction e non di trasmissione ad impronta giornalistica, qualche ardita "licenza poetica" può anche starci, purché non tradisca eccessivamente la realtà. Il problema delle fiction di produzione nostrana, per inciso, è che il vero sconfina troppo spesso nel verosimile, fornendo talvolta una immagine distorta dei personaggi che si vogliono ritrarre: il caso più clamoroso fu quello di Rino Gaetano, trasformato in una sorta di poeta maledetto. Ciò, per la verità, si avverte un po' meno nella "Farfalla granata", la cui credibilità risulta minata da altri punti deboli. In prima istanza, non si capisce perché alla fine tutto debba sempre essere incentrato sulla storia d'amore tra i protagonisti, nel caso specifico tra il campione e la bella Cristiane: il sentimento ci sta, la liaison è esistita, intensa e contrastata, e andava raccontata, ma non al punto di farne il sole attorno al quale dovevano muoversi tutti gli altri elementi narrativi, quasi schiacciandoli. POCO CALCIO - Le vicende prettamente sportive dell'estrosa ala hanno, al confronto, uno spazio marginale, in cui si eccede nella sintesi: l'approdo del ragazzo alla Nazionale e la convocazione per i Mondiali del '66, i momenti più alti della sua carriera, rischiano quasi di passare inosservati, e più in generale di football autentico se ne vede poco, pochissimo. Ridotte ai minimi termini le scene di allenamento e di gioco, per le quali in un paio di circostanze si fa ricorso direttamente a filmati di repertorio: quasi un'ammissione di impotenza nel vano tentativo di ricostruire degnamente fasi agonistiche, il che è da sempre un limite storico delle pellicole a sfondo calcistico, senonché alcune produzioni relativamente recenti, penso a "Il miracolo di Berna" (sul trionfo tedesco ai Mondiali del '54, ne parlai anche sul blog, qui) e  "The game of their lives" (sulla memorabile sfida Stati - Uniti - Inghilterra della Coppa del mondo 1950, vinta a sorpresa dagli americani) hanno dimostrato che un match di pallone può essere ottimamente rappresentato in versione filmica, senza che la "finzione" faccia perdere pathos ed efficacia. UN SOLO FUORICLASSE - Ancora: senza voler girare troppo il coltello nella piaga, il livello della stragrande maggioranza degli attori si è rivelato assai modesto: recitazione scolastica, poco spontanea, con in testa, spiace dirlo, proprio il protagonista, Alessandro Roja (leggermente meglio di lui Alexandra Dinu, nei panni dell'adorata Cris). Personaggi "di contorno" scarsamente caratterizzati, eccezion fatta per Nereo Rocco, non a caso valorizzato dall'attore più titolato e preparato del cast, Francesco Pannofino; viceversa, si sarebbe potuto scavare maggiormente nella vita di Beniamino Santos, allenatore di Meroni ai tempi del Genoa, di qualche compagno di squadra (tutti rimasti nell'ombra, a parte l'amicone Poletti) e di Edmondo Fabbri, rappresentato in maniera largamente ingenerosa e ricorrendo a qualche stereotipo francamente poco credibile (la marcia dei bersaglieri fatta ascoltare ai calciatori prima di una partita della Nazionale...). Stereotipi a go go anche nella vicenda umana di Meroni, col classico "presentimento" che, chissà come mai, non può mancare in queste tragiche vicende ("E' come se sentissi di dover fare le cose in fretta perché ho poco tempo", confida un dì alla sua amata...). TROPPI ASPETTI INESPLORATI - Rimane comunque il tema di fondo: una vicenda così ricca di sfaccettature sportive, umane, financo sociali (il calciatore capellone e "beat" portabandiera dei primi fremiti di ribellione della gioventù dell'epoca) ridotta ai tormenti sentimentali dei protagonisti: l'amore è bello, è sano, emoziona lo spettatore, ma non sta scritto da nessuna parte che debba essere gonfiato all'inverosimile, fino a farlo debordare, anche in opere che pure potrebbero brillare di luce propria senza bisogno di questi eccessi di melassa in stile Liala o Grand Hotel. Il "rosa confetto" che permea la fiction ha fatto perdere di vista tanti passaggi importanti: cosa c'è di più tremendamente, crudamente romanzesco, di più "televisivo" o "cinematografico", di un calciatore che muore investito da un suo tifoso il quale, parecchi anni dopo, diventerà presidente proprio del Torino calcio (parliamo di Attilio Romero)? Perché non fare cenno di tutto ciò? Perché non approfondire le vicende che portarono alla sua "emarginazione" tecnica nel corso del Mondiale '66, culminato con la storica vergogna della Corea? Si voleva fare un film in parte slegato dal rigore documentaristico, che viaggiasse su binari diversi e più "creativi"? Al di là del fatto che sarebbe discutibile, ma allora perché chiudere il tutto con immagini autentiche dei funerali e del corpo senza vita di Meroni, quasi si volesse in extremis accrescere la credibilità del prodotto? SFIDE E GUERIN - Per tutto questo, e rispondendo alla domanda retorica posta all'inizio, no, non è proprio il caso di ringraziare la Rai per "La farfalla granata". Chi Meroni l'ha visto giocare ha un suo ricordo ben scolpito nel cuore, che difficilmente sarà stato arricchito da questa fiction (anzi...); chi non l'ha visto giocare, come nel mio caso, ha già avuto modo di scoprirlo tramite rievocazioni su giornali, libri e tv. La speranza è che lo stesso facciano i giovanissimi: si guardino "Sfide", o, per cominciare, acquistino il numero del Guerin Sportivo attualmente in edicola, con uno special ricchissimo sui migliori cento calciatori nella storia del Toro: sarebbe già un ottimo inizio per apprezzare davvero ciò che fu Gigi Meroni, e ciò che rappresentò per il calcio e per i tifosi dell'epoca. 

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