di Lele Mastroleo
Pasquale Urso: Marina (Acquerello)
… quando muore un giorno e sulla finestra, che dà sul retro, si raduna la pioggia e ci si specchia tutta la fatica delle ore, sul sentiero che si spinge sino al bosco del tempo, si vede passare una donna in nero con in mano una torcia e una campana. E tra gli alberi della macchia si intravede la figura rassicurante di Cosimo il sagrestano che dirige la sua orchestra di fascine, cavalli e carretto, mentre muove i fili di ferro con maestria e confeziona, in men che non si dica, delle cataste di legna e foglie e che con assoluto amore e rispetto depone nel traino del carretto con delicatezza indicibile e eleganza. In lontananza vi è solo il latrato di una nave che lascia il porto e la luce dei fuochi di segnalazione si fa un po’ alla volta più sbiadita ed il buio all’improvviso diventa sovrano assoluto dei colori della pianura.
Quella donna dall’incedere incerto ed inverosimile avvicinandosi al bivio della Storta fa il gesto di raccogliersi i capelli sotto al fazzoletto di pelle d’uovo e, conoscendo le abitudini del sagrestano e soprattutto i difetti – tra cui una seria sordità, ricordo di una palla di cannone di chissà quale guerra e di quale secolo – gli si parò quasi sino sopra il naso e, urlando con tutta la voce che le rimaneva, lo salutò per nome e cognome. Il vecchio guardiano fece finta di sobbalzare … lo faceva sempre per far credere agli altri che lui ci sentiva benissimo.
- “Cos’hai da urlare vecchia suonata, non sarò mica sordo!!!! Che c’è, schiantata. Che è successo di nuovo?”, rimbrottò stizzito Cosimo quasi infastidito dalla presenza di quella donnina, sua sorella da più di settanta anni e madre di due uomini alti e forti, Andrea e Tore, che aveva tenuto a cresima come aveva promesso al cognato pochi minuti prima che lo stesso si giocasse il cielo per colpa di una febbre malarica che neanche ettolitri di vino caldo e migliaia teste di vipera sarebbero riusciti a debellare.
La vecchia era conosciuta in tutta Idro con il nomignolo di nonna Prora anche perché in realtà il suo vero nome Porpora era difficile da tenere a memoria e quindi era normale per una città di maretrasformare quell’insueto nome in qualcosa di più familiare come: “Prora”.
- “Il diavolo ti porti via, vecchio rincretinito di un sagrestano senzadio, ti ricordi che giorno è oggi?”, disse la Prora al fratello ancora più sorpreso per la vista della sorella arrivata trafelata e le sue strane domande.
- “Certo che lo so. Che credi che sia così rimbambito da non riuscire neanche più a ricordarmi i giorni della settimana? Oggi è venerdì e se iddio vuole domani mattina è sabato? Adesso, mi spieghi perché questa stramaledetta domanda?”, rispose risoluto il Cosimo.
- “Certo che più passano gli anni e più mi rendo conto che nostra madre e nostro padre non si saranno sforzati troppo nel farti se sei venuto fuori e cresciuto così caputeminchia! Non ti stavo chiedendo il giorno della settimana, nanni, ti volevo solo ricordare che domani è il 15 e questa notte dovresti trovarti un giaciglio in sagrestia visto che domani all’alba Don Carmine inizierà a “dire messa” alle 4 in punto per la festa di Santuroccu ed è per questo che ti portai la sveglia e la campana piccola per la consacrazione che avevi lasciato a casa”, gli disse la sorella.
- “Ah, era per questo allora”, ma Cosimo non riuscì a finire la frase perché nel momento stesso che stava per pronunciare l’ultima parola gli si accanì una tosse violenta e una punta di saliva gli bloccò la gola e lo costrinse a deglutire all’istante e ad appoggiare la schiena al carretto per non stramazzare per terra.
- “Tu e quello schifo di sigari puzzolenti che ti ostini a fumare alla tua età. C’hai più anni del diavolo e ogni boccata che dai a quei tizzoni potrebbe essere l’ultima, vecchio rimbambito. Insomma, pigliati questa campana e questa sveglia, e vattene subito a dormire che sennò domani stai come l’eccehomo e ne combinerai una delle tue”, – l’ammonì la sorella tra l’attenzione di una vecchia sorella ed il fastidio di ripetere in continuazione le solite raccomandazioni a quell’uomo trascurato e burbero.
Adesso Prora tornava all’istante verso casa, sempre con quella sua camminata storticchia e claudicante, e pensava che sarebbe stato meglio anche per lei andarsene subito a dormire, anche perché la giornata era stata alquanto lunga e l’appendice della passeggiata sino al bosco a cercare Cosimo era stata faticosa. Prora aveva svoltato l’incrocio della Storta e stava prendendo il tratturo che portava alla collina della Ciaddha ed in fondo al sentiero girava a sinistra per scendere l’altra mulattiera detta de le Franite che portava sino a casa dei Sergi, cioè casa sua. Voleva fare quella strada per tornare a casa ma quella sera Prora a casa non fece ritorno…
…nonna Prora stava per girare sulla mulattiera che porta alla collina quando, all’improvviso, le si stagliò un’ombra sul verso dritto della luna e riuscì, nel bagliore della luce del faro di Mezzacapra, a distinguere un uomo alto e grosso che le sbarrava la strada.
- “Dove vi porta la luna, questa sera, nonna Prora? Dove portate l’anima a prendere sonno in questa notte di vecchi colori dove la luna la fa da padrona e sembra che debba cadere all’improvviso a scuotere la Terra?”, si sentì in tono molto basso la voce dell’uomo.
- “Chi siete? Cosa volete da me? Come mai conoscete il mio nome?”, urlò spaventata l’anziana donna, e sentì il cuore nel petto che spingeva per uscirne fuori.
- “Non abbiate paura, nonna Prora, non voglio farvi del male. Mi conoscete benissimo, anche perché mi avete visto crescere e mi avete chissà quante volte asciugato le lacrime e quante volte mi avete rimproverato della mia monelleria quando ero piccino. Ed anche se sono più di venticinque anni che non ci vediamo, posso garantirle che mi conoscete benissimo”, disse l’uomo, stavolta con voce amichevole, per rassicurare la vecchina.
- “Sono Gabriele, nonna Prora. Sono figlio della Meca di Toto Iaco, la sarta, e sono qui solo perché mi hanno detto che devo fare un viaggio per vedere quello che è rimasto della mia terra. Mi hanno detto di scegliermi qualcuno che questa terra la potesse raccontare per come era e magari per come è diventata, come compagno io ho pensato a voi. Voi che quando ero bambino mi facevate sedere in grembo e passavate le serate a raccontarmi tutte le storie e le fiabe di cui era capace questo lembo di mondo”, continuò quell’omone enorme che diventò rosso in viso mentre raccontava del suo incarico.
- “Gabriele, mamma mia, come siete diventato grande. Mamma mia, che piacere che mi fate, anche se all’inizio mi avete fatto torcere lo stomaco dalla paura. Madonna santa e chi se lo sarebbe mai aspettato”, riuscì a dire nonna Prora rinfrancata e finalmente tranquilla, e si mise a sedere su un masso appena il muretto a secco della Ciaddha e prese fiato un momento per continuare, ma un urlo improvviso assordante proveniente dall’altra parte della collina, squarciò il silenzio di quella piccola notte.
- “Non vi preoccupate, è solo mio fratello che bestemmia inveendo contro il mal di schiena, tutte le sante volte che rizza la schiena su quel benedetto carretto”, spiegò la Prora all’uomo che sembrava spaventato ed allarmato da quegli urli.
- “Tornando a noi, cara nonna Prora, vi ho scelta anche perché qualcuno mi ha confidato, e questo mi vergogno di chiedervelo, se mai possa essere vero che voi sappiate volare. E se così fosse mi piacerebbe sfruttare questa vostra virtù per realizzare il mio ed il vostro compito in maniera più efficace”, chiese molto imbarazzato, quasi sembrava un bimbo scoperto a rubare.
- “Certo che vi posso aiutare, caro il mio Gabriele, anche perché la storia del mio “volare” è vera vera. Ed è anche vero che tutte le donne di questo angolo di terra inzuppato nel mare, sanno volare. Alcune lo imparano immediatamente, sin dalla tenera età dovendosi accontentare di diventare subito donne e madri, altre lo scoprono con gli anni quando oltre che madri, mogli e lavoratrici devono imparare ad essere ed a fare tutto per far sopravvivere la loro famiglia” – continuò l’anziana donna – “queste son cose che dovrebbe conoscere bene ed è meraviglioso che vi sorprenda ancora tanto. Andiamo su, sbrighiamoci. Se abbiamo una missione da compiere è bene che ci muoviamo subito. Soprattutto per il fatto che domani è la festa di santuroccu e dovrei svegliarmi presto e poi svegliare anche quell’impiastro di Cosimo che non lo svegliano neanche le colubrine”.
Detto questo, nonna Prora si tolse il bolerino che le copriva le spalle, recitò a bassa voce una specie di filastrocca, spalancò le braccia e agli occhi increduli dell’uomo comparvero due gigantesche ali grigie.
- “Salitemi sulle gambe come facevate da bimbo e chiudete gli occhi, Gabriele che il viaggio per voi inizia adesso”.
- “Sai già i tre posti che dobbiamo visitare?”, chiese quell’enorme individuo con un solo filo di voce, mentre si inebriava tra le folate di vento e i vuoti d’aria di quello strano volo.
- “So già tutto, non vi preoccupate. Mi avevano già avvertito del vostro arrivo. Solo che non mi avevano detto né dove né quando sareste arrivato”.
La prima tappa portò i due viaggiatori in un posto di campagna di non molti anni prima, un posto incantevole ai piedi della salita che da Ssantacisaria porta a Bbitijianu, una stradina in salita costeggiata da due muri a secco lunghissimi e fatti in maniera così imprecisa e incerta che sembravano un capolavoro di Paul Klee. In quella stradina che dalla strada provinciale si buttava dentro il mare c’era tutta la meraviglia della nostra terra, compresa la maestria sconclusionata di quei muri a secco. Si respiravano i sapori tardivi dell’albero di ficamaranciana spontaneo, l’odore del sangue dei papaveri rosa che si schiudevano al passaggio dei sandali di bimbo. E la lucertola fracetana che amava gli angoli spizzutati dei massi dove prendere il sole a ritmo dei propri momenti. C’era il profumo di tabacco d’estate e le impronte nere delle piante dei piedi delle tabacchine messe a giornata, quel soffermarsi all’ombra del fico e dell’olivastro a cantare nenie di pargolo, follie d’amore, magie di donne in nero. Quel cercare tesori per rimediare tra gli sterpi una cena arrangiata, del tanto poi domani ci si pensa. C’era tutta la nostra terra in quel pezzo di tratturo e se appoggiavi l’orecchio a terra potevi sentire ancora battere le mani in cerchio dei lavoranti della rimunna, di quelle mani cariate dal freddo ferro delle forbici sotto alla spalliera della vite, da sole a sole. Quella stradina in salita che i miei nonni chiamavano della serriceddha. Adesso c’è un quadrivio tutto asfaltato, con le sue belle indicazioni a destra e a sinistra, con una rotatoria cementata con sovrappiantati degli immensi lampioni che illuminano meravigliosamente tutto quel tratto di strada che dal mare porta sino alla statale. Tratto di strada allungato, migliorato, modernizzato, penseresti però non lo dirai mai, perché in quel pezzo di strada ci passano durante il giorno solo poche vetture. Che senso ha, si domandavano i due protagonisti, disintegrare un pezzo di una magnifica collina, estirpare una scorciatoia, per costruire una strada che allunga tutti i percorsi verso qualsiasi direzione?
Lasciarono quella salita appiattita, deforme, disarcionata che batteva la dodicesima ora dell’orologio della Torre di Mezzo ed arrivarono dopo un breve volo nel paese dei fuochi, paese natale della fantasia, paese vicino alla metà giusta,e lontano da tutte le mete. Luogo incantato, di lupi mannari e streghe, di santi copiati e di santi veri,di luminarie e di processioni, di poeti callosi e malfermi. Era la patria del nano assassino e della pietra bruciata al sole di giugno. Videro la festa della santa greca, della vergine cinerea e si fermarono quasi estasiati a contemplare quella esplosione magica di luci colorate, di vernice calda che copre le lampade e quel gioco frenetico che fanno gli archi e le volute di legno che disegnano la notte di linee fatate. Si rivedeva bambino Gabriele, mentre riportava a memoria ogni angolo e ogni viso del paese mischiati agli odori di basilico e asparagina, rivedeva le nuvole che accompagnavano quegli assurdi pomeriggi passati a divorare i classici, a tutte quelle notti insonni a piangere miseria e a chiedere indietro la vita, a quelle gambe glabre che tiravano dietro una intera passione. E quelle fughe solitarie a vedere le stelle fare bersaglio della luna, sul lato più scuro delle montagnette, piccole asperità della collina delle tagliate che facevano da limite al conosciuto. Riaprendo gli occhi vide la bancarella della grattachecca e la vecchia nonna in nero che raschiava con maestria bicchieri di quella fantasia di cui andava fiero il paese, colori inventati, colori di incanto. E quel cucchiaino da restituire, da spartire, da condividere era il paese, erano tutti i paesi, era la comunione laica, era la particola del vivere insieme, un’ostia dell’assieme, della partecipazione, della compenetrazione di tutti nello spirito del proprio esistere. Nonna Neve ed il suo ghiaccio, le sue granite, le sue magie, i suoi sapori ogni anno diversi, ogni anno uguali. Ed il carretto delle noccioline, che spacciava passatempi a tutti i bimbi di quel piccolo universo, lontano da giochi di guerra e fischi di sirene che squarciano il silenzio. C’era il vizio di esistere, perché c’era ancora da avere speranza nel futuro, ora che il futuro era arrivato si erano smarrite le speranze.
Ed eccola finalmente la meta finale, quell’ultimo spicchio di passato da legare alla memoria, da ripassare a memoria, perché niente più sarebbe stato uguale. Eccola lì la parte di universo che più assomigliava alla magia. Era lì da secoli con la torre di Miggiano a guardia dei nostri racconti. Era lì da secoli, tra approdi improvvisati e ripari di fortuna, angolo del cielo che la terra aveva conservato. Eccola lì, lucente di terra rossa e rovi di more, con quel imperituro sbuffeggiare delle onde nella mediana delle maree contro la parete di roccia, a innalzare spruzzi di sale che combattevano la gravità facendo a pugni con il vento. Era lì con il suo carico di bellezza e di incontrastata natura, ricercata dalla pazienza dei viaggiatori, stiletto di mare che pugnalava la terra e le faceva uscire sangue fertile e necessario. Vagina di mare che partoriva sole e leggende, pregna madre di marinai, figlia serena di eroi e di giganti.
- “Che ne sarà di Porto Miggiano, nonna Prora, nonna di tutti i miei pensieri e madre sapiente di antiche storie? Cosa ne sarà della mia infanzia e dell’infanzia dei tuoi figli, dove metteranno quei gradini ripidi che portavano all’innocenza? Dove ci metteranno ad invecchiare?”, chiese infervorato Gabriele alla donna.
- “Non ho risposte da darti, figlio mio e figlio della mia terra e dei miei ricordi. Io sono solo ormai una povera vecchia che riesce ancora a volare, che riesce ancora a mettere la fantasia al servizio di quelli che come te amano collezionare i momenti”.
Nonna Prora aprì le ali si rimise Gabriele in grembo e riprese il volo.
Mi svegliai di soprassalto che ero ancora sulla sedia di un vecchio salone da barba a Perugia, mi guardai allo specchio e sentì dietro me il vecchio barbiere Cosimo che tossiva rumorosamente mentre sbraitava contro il suo vizio di fumare…