Riporto il commento di Jim Leaviss, Head of Retail Fixed Income di M&G Investments, sulla discussione inerente un possibile cambiamento della politica inflazionaria della Fed.
Il mercato obbligazionario non vi ha dato molta attenzione, ma la scorsa settimana sia Jon Hilsenrath sul Wall Street Journal e, in seguito, Paul Krugman sul New York Times hanno rivisitato il saggio di Ben Bernanke sul Giappone Monetary Policy: A Case in Self-Induced Paralysis (trad.Politica monetaria: un caso di paralisi autoindotta). Bernanke lo ha scritto nel 1999 come saggio accademico alla Princeton University e vi fa appello alla Banca del Giappone affinché stabilisca un target d’inflazione "abbastanza elevato", per dimostrare che "è decisa a mettersi al riparo dal regime deflazionario, ma anche a recuperare il divario dei prezzi creato da otto anni d’inflazione zero o negativa". Bernanke argomenta sul fatto che un target d’inflazione del 3-4%, da mantenere per alcuni anni, darebbe al settore privato una certa sicurezza sulla volontà delle autorità di uscire dalla trappola della deflazione.
La Banca del Giappone non ha ovviamente badato al saggio di Bernanke e, a più di dieci anni dalla sua pubblicazione, l’indice dei prezzi al consumo giapponese è ancora molto negativo anno su anno. Mi chiedo se il suggerimento di Bernanke al Giappone, per uscire dalla stagnazione in cui è caduto dopo lo scoppio della bolla immobiliare commerciale, rispecchi il suo pensiero su quello che la Fed dovrebbe fare per aiutare l’America a uscire dalla stagnazione in cui è caduta dopo lo scoppio della bolla del proprio mercato immobiliare residenziale. Al momento la Fed ha un target d'inflazione di lungo termine solo del 2%, ma ha anche l’obiettivo di far crescere l’occupazione. Si può sostenere che la Fed abbia generalmente messo l’obiettivo occupazionale prima di quello inflazionistico – la sua reazione è sempre stata di attendere che il tasso di disoccupazione iniziasse a scendere prima d’innalzare i tassi (l’intervallo tra la diminuzione della disoccupazione e l’innalzamento dei tassi da parte della Fed è stato particolarmente lungo nelle due ultime riprese economiche).
Tuttavia, raddoppiare il target d’inflazione americano provocherebbe una carneficina sul mercato dei titoli di stato statunitensi (chi vorrebbe un bond a dieci anni con rendimento del 2,7% se la Fed ha un obiettivo d’inflazione del 4%?) – e, con uno dei più brevi profili di scadenza del debito delle economie sviluppate, il costo di una modifica del target in termini d’interesse potrebbe essere sufficiente a innescare un downgrade del rating del credito (e nel medio termine anche un default?). Soltanto per questo motivo credo sia molto improbabile che Bernanke parli pubblicamente di una modifica del target (sebbene altri, compreso il chief economist del FMI, Olivier Blanchard, abbiano suggerito un tale aggiustamento). Ma le mani di Bernanke potrebbero essere legate, a causa della noncuranza politica e pubblica sull’impennata del deficit di bilancio e del comportamento del Tesoro americano, che ha fatto ricorso a debito di breve termine per finanziarlo (il 50% dei titoli di stato americani arriva a scadenza nei prossimi tre anni). Un impatto positivo sul settore privato deriva da un chiaro segnale di cambiamento della politica inflazionaria ma, poiché gli Stati Uniti continuano a fare affidamento sugli investitori esteri per finanziare il proprio deficit, questo segnale diventa molto costoso, e probabilmente letale. Non mi aspetto, quindi, che ci siano variazioni della retorica di Bernanke sul target d’inflazione. Ma i fatti sono più eloquenti delle parole e, nell’immediato futuro, vedremo continuare la politica dei tassi d’interesse zero, insieme alle ripetute escursioni nel mondo dell’alleggerimento quantitativo. A proposito dell’esito di queste politiche, sarebbe sciocco affermare con troppa convinzione se le economie occidentali finiscano con l’assomigliare più al Giappone o, forse, allo Zimbabwe.
Dott Fabio Troglia
fabio.troglia@gmail.com
www.lamiaeconomia.blogspot.com
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