Maksim Leonardovič Ševčenko, uno volti più noti della televisione russa, giornalista della prima rete “Pervyj Kanal” dove attualmente conduce il programma di approfondimento “V kontekste”, ha preso parte come relatore alla conferenza organizzata da “MIR Initiative” il 28 maggio a Roma presso la Sala delle Colonne del Parlamento italiano, dal titolo “Bridging the New Middle East“. Al termine dei lavori, Ševčenko ha concesso un’intervista a Dario Citati, ricercatore dell’IsAG, durante la quale il tema della conferenza – il futuro dei Paesi arabi – è stato ampliato conferendo particolare attenzione alle dinamiche politiche interne e al ruolo internazionale della Russia. Le nuove sfide interne, connesse allo sviluppo dell’economia nazionale e ad un rapporto più costruttivo fra Stato e società, si saldano alla funzione esterna che già la geografia sembra assegnare alla Federazione Russa: quella di fungere da mediatore politico in tutta la fascia concentrica che ne circonda l’immenso territorio, dall’Europa e dal Vicino Oriente passando per l’Asia Centrale fino all’Estremo Oriente.
Maksim Leonardovič, è da poco uscito il primo numero della rivista “Geopolitica” dedicato ai primi vent’anni della Federazione Russa. Vorrei chiederLe un bilancio di questa storia recente: che cosa è cambiato da vent’anni a questa parte? Quali sono a Suo giudizio le differenze più significative tra il contesto odierno e quello in cui è nata nel 1991 la Federazione Russa?
La Federazione Russa è nata nel caos, nella più totale impreparazione della maggior parte della popolazione a quelli che vengono chiamati il capitalismo e il libero mercato. Immediatamente dopo il crollo dell’Unione Sovietica il potere politico è stato preso d’assalto da uomini provenienti dagli apparati di partito, dal KGB, dal Komsomol – quindi in buona parte provenienti da strutture sovietiche – i quali, rinnegata l’ideologia comunista, hanno conservato il proprio potere e hanno promosso la formazione del cosiddetto libero mercato. Questo processo ha condotto gran parte della popolazione in una condizione di miseria e di totale assenza di diritti. A ciò si è accompagnata una guerra interna, il bombardamento del Parlamento, la violazione di tutte le libertà civili, l’assoluto dilagare della criminalità e di strutture mafiose, la corruzione endemica negli organi di Stato, la totale impotenza di qualsiasi forma di opposizione. Insomma un’autentica catastrofe: il Paese è letteralmente crollato negli anni 1991, 1992, 1993. Dall’arrivo al potere di Putin la situazione è notevolmente cambiata. In primo luogo, il Paese ha cominciato a ricompattarsi: si è riusciti a bloccare la minacce di separatismo e dunque il rischio di perdere il controllo di diverse regioni. Attraverso il potere giudiziario è stata isolata quella parte dell’oligarchia che aveva apertamente depredato le risorse e le ricchezze del Paese, trasformandolo in una sorta di colonia di imprese multinazionali americane ed europee: è così finita l’epoca di personaggi come Chodorkovskij, Berezovskij, Gusinskij o Smolenskij. È stata formulata un’agenda di lavoro in politica estera per lo sviluppo strategico del Paese. Dopo il default del 1998, è stato rimesso in piedi il sistema delle finanze pubbliche ed ha avuto anche inizio una riorganizzazione delle forze armate. È stata ristrutturata la burocrazia di Stato – perché senza una burocrazia è impossibile governare un Paese enorme come la Russia – e gradualmente sono tornati alla ribalta i partiti politici, anche se il processo di formazione di una società democratica è ancora in fase di transizione. Nell’insieme le differenze sono quindi evidenti. Al giorno d’oggi la Russia è un Paese stabile, che certo vive i suoi problemi soprattutto in alcuni regioni. È ancora irrisolto il problema della corruzione, così come quello dell’evasione fiscale – anche se occorre dire che in quest’ultimo ambito si sono avuti comunque progressi, perché negli anni Novanta le entrate dello Stato erano inconsistenti. Avendo raggiunto i suoi obiettivi di bilancio pubblico, la Russia è così in condizioni di affrontare meglio la crisi economica, proprio perché dipende in misura minore dagli istituti finanziari. Questo aspetto ha però i suoi lati negativi: lo scarso sviluppo degli istituti di credito è uno dei problemi da affrontare oggi. Così come la debolezza degli “istituzioni” in senso generale, da quelle amministrative a quelle politiche fino alle infrastrutture materiali, che non sono ancora sviluppate e non offrono ancora un contributo effettivo. È ovviamente difficile progredire in poco tempo ed arrivare per esempio ai livelli dell’Italia, che ha impiegato più di cent’anni per consolidarsi. Noi in pratica abbiamo cominciato da zero a costruire un Paese nuovo. La Federazione Russa è infatti tutt’altra cosa rispetto all’Unione Sovietica: essa ha una nuova mentalità, è abitata da nuove generazioni, con nuovi approcci verso la realtà e nuove sfide da affrontare. Mi riferisco anche ai problemi di cui si è parlato oggi, come la presenza dell’Islam o il tema del dialogo fra civiltà. Ai miei occhi si tratta di un tema che è divenuto centrale proprio negli ultimi cinque o sei anni. L’Europa non sa per esempio come porsi rispetto all’immigrazione che giunge dal Nord Africa attraverso il Mediterraneo, mentre per noi non si tratta di una “civiltà altra”, perché la civiltà islamica è parte del nostro Paese. Si pensi ai milioni di persone originarie dell’Asia Centrale, uzbeki, tagiki, etc., che vivono sul territorio della Federazione Russa. A ciò si aggiunga che Mosca è rimasta il centro politico-economico di tutto lo spazio post-sovietico. Nonostante i tentativi degli anni Novanta di realizzare un “canale turco” in Asia Centrale o un “canale europeo” in Ucraina, Mosca è ancora oggi il connecting point attraverso cui passano, in varie forme, i flussi finanziari che coinvolgono le economie delle repubbliche centroasiatiche dell’ex URSS. Inoltre mi sembra che negli ultimi anni l’élite del Paese abbia preso consapevolezza di un fatto importante: sarà pur bello vivere in Europa, ma il futuro occorre costruirlo non insieme all’Europa bensì negli enormi spazi asiatici densi di risorse naturali. La Cina, i Paesi dell’Asia Centrale, l’India e l’Iran sono i nostri alleati naturali che aspettano sostegno e aiuto da parte nostra. Quando la Russia ha guardato accanitamente verso Occidente, durante gli anni Novanta, ci ha perso enormemente e non ha guadagnato nulla. Anzi, ci hanno guadagnato soltanto alcuni. E in realtà una Russia forte, capace di fungere da mediatore fra i Paesi summenzionati è necessaria anche all’Europa, che a sua volta affronta oggi problemi assai complessi. Questi sono stati, a mio avviso, i più grandi cambiamenti degli ultimi vent’anni. Voglio anche aggiungere che è sensibilmente migliorata la qualità di vita di buona parte della popolazione: se negli anni Novanta la maggior parte del Paese versava in condizioni di indigenza, oggi molte persone vivono non da benestanti ma almeno dignitosamente. Mosca per esempio è ormai una città molto ricca, ma non “esclusiva”, e con un basso tasso di povertà: caffè, locali e ristoranti sono affollati da immense fiumane di giovani, che in genere trovano un lavoro e guadagnano dei soldi. La situazione insomma è profondamente cambiata da vent’anni a questa parte. I problemi ci sono, e sono anche tanti. Ma abbiamo la possibilità di cercare delle soluzioni.
Proprio rispetto a tali problemi vorrei porLe la seconda domanda, che concerne il ritorno al Cremlino di Vladimir Putin. Quali sono le priorità che il Presidente russo deve affrontare nei sei anni di mandato? Quali gli errori da evitare?
Innanzitutto il ritorno di Putin come Presidente è un fatto assolutamente normale. In Europa molti uomini politici sono ritornati al vertice dopo un periodo di assenza (penso ad esempio al generale De Gaulle) e nella stessa Italia vi sono stati casi analoghi. Si tratta di un processo che viene considerato assolutamente fisiologico e compatibile con la democrazia: non si capisce perché nel caso russo debba essere dipinto come un’anomalia. D’altronde Putin è considerato nel nostro Paese un grande statista, perché al suo nome sono legati cambiamenti importanti nella vita di molti cittadini della Federazione Russa. Molte delle cose da lui realizzate possono dirsi positive: il raggiungimento della stabilità, la conclusione della guerra in Cecenia, la graduale formazione di una classe dirigente che ha iniziato a lavorare per lo sviluppo del Paese e non solo per acquisire prestigio e denaro. Io penso che il compito più difficile dei prossimi sei anni sarà sicuramente la creazione di uno spazio di autentica democrazia politica, una democrazia che non sia quella “inventata a tavolino” dagli spin doctors e dai politologi, bensì una democrazia reale, cioè un sistema in cui i partiti politici siano attivi e responsabili delle proprie scelte. Negli ultimi anni questo aspetto è stato sicuramente assente. In questo senso, credo che la burocrazia dello Stato – che in buona parte sostiene Vladimir Putin – deve trasferire parte del suo potere e della sua influenza al Parlamento. Il maggiore peso delle assemblee rappresentative, sia sul piano federale sia su quello regionale, è un processo inevitabile, legato proprio allo sviluppo delle forze economiche del Paese. Quando aumenta la massa monetaria, sia essa “virtuale” o reale, crescono anche le possibilità di sviluppo della società che inevitabilmente divengono anche processi politici, cioè istanze di rappresentanza politica nei confronti dello Stato. Questo è quindi il primo compito da affrontare. Il secondo, cui accennavo in precedenza, è lo sviluppo e il consolidamento concreto delle istituzioni. Per ora esse hanno un’ossatura ma sono prive di contenuti forti. Lo sviluppo degli istituti finanziari deve essere orientato non agli investimenti nel mercato azionario statunitense, bensì all’allocazione di risorse per l’economia reale, dal sostegno alle aziende che lavorano le materie prime alla concessione del credito per la crescita di piccole e medie imprese. Sono convinto che qui risiede il futuro del Paese. In generale, le istituzioni civili devono essere indipendenti dalle manipolazioni non solo dei centri finanziari, ma anche delle strutture burocratiche della stessa Russia. La burocrazia statale deve insomma capire che la corruzione umilia essa stessa e sminuisce il suo ruolo all’interno del Paese. Ritengo che si possa condurre a buon fine questi processi nei prossimi sei anni. Ma il compito più importante è rappresentato probabilmente dalla politica delle nazionalità. Si tratta di una questione assai delicata, che sono certo potrà essere affrontata attraverso la formazione di un sistema giuridico originale, in grado di combinare i valori tradizionali dei popoli che abitano la Russia con le conquiste della moderna società democratica. Per far ciò è altresì importante sostenere una visione della storia che sia sufficientemente complessa. Non è più possibile, ad esempio, insegnare a tutti la stessa storia. I popoli tatari o caucasici hanno una propria storia, che è anche la storia peculiare delle loro relazioni con Mosca. Una storia che noi non possiamo ignorare e che dobbiamo essere in grado di inserire in un quadro unitario.
Tornando al tema specifico della conferenza di oggi, passerei ad analizzare adesso la politica estera della Russia in Vicino Oriente e in Nord Africa. Nel corso della cosiddetta “primavera araba” la Russia ha sinora mantenuto una posizione prudente ed equilibrata, sforzandosi anche di intervenire come mediatore tra le parti in conflitto, per esempio nel caso degli scontri in Siria. Durante la conferenza di oggi si è fatto riferimento al possibile rafforzamento di forze politiche islamiste nei Paesi toccati dalle rivolte. Come si pone la Russia rispetto ad un tale scenario? Quale sarebbe l’atteggiamento russo nei confronti di un Islam politicamente forte che può acquisire sempre maggior peso?
Ritengo che nella politica estera russa in queste regioni sussistano due tendenze fondamentali. Una è quella vicina alle posizioni americane, e soprattutto a quelle israeliane, che a priori considera l’Islam politico come un nemico minaccioso. Come ho sostenuto nel mio intervento, a questo orientamento si può ricondurre l’esperienza della guerra sovietica contro l’Afghanistan e delle stesse guerre cecene. L’altra tendenza è l’approccio più ragionevole, incarnato da Putin e Medvedev e tradotto in pratica da Sergej Lavrov e dal suo entourage, che intende mantenere rapporti anche con Hamas e con Hezbollah e che intrattiene consultazioni permanenti con la classe dirigente iraniana. Credo che non sia lontano il giorno in cui la Russia avrà buoni rapporti anche con i Fratelli Musulmani in Egitto. In generale questi rapporti rivestono una grande importanza: da noi non c’è una vera islamofobia – e io credo che essa non abbia ragion d’essere. So che tutta una serie di validi uomini politici non hanno questo tipo di atteggiamento preconcetto. Nei cambiamenti che stanno avvenendo in Egitto, per esempio, i Russi vedono nell’insieme l’espressione della autentica volontà popolare. L’alleanza della Russia con Mubarak era in realtà condizionata dalle contingenze, ma non sussisteva una vera intesa. Secondo me, nel futuro immediato molto dipenderà dalle sorti dei Fratelli Musulmani, cioè dall’eventualità o meno che il loro candidato vinca le elezioni. La Russia ha una storia di lunga data di rapporti con l’Egitto, anche con la sua componente propriamente islamica, che possono intensificarsi negli interessi sia della Russia sia del popolo egiziano. Per quanto riguarda invece gli altri sommovimenti della “primavera araba” le cose stanno diversamente. Gli avvenimenti in Libia hanno dimostrato alla classe dirigente della Federazione Russa che l’Occidente non mantiene le proprie promesse. Questo, secondo me, ha anche determinato il veto russo sulla questione siriana. L’operazione militare in difesa degli insorti libici ha significato una pesante intromissione delle truppe NATO nelle questioni interne della Libia. I bombardamenti hanno condotto all’uccisione di civili e dei membri della famiglia Gheddafi, determinando l’esecuzione dello stesso
Con l’ultima domanda vorrei approfondire alcuni aspetti in parte da Lei già accennati. All’epoca della guerra fredda, la politica vicino-orientale dell’Unione Sovietica si inquadrava in un contesto di buoni rapporti con il mondo arabo e anche di sostegno al popolo palestinese, nel mantenimento di uno speculare atteggiamento critico nei confronti di Israele. Dalla nascita della Federazione Russa questa politica sembra essere però cambiata e i rapporti con lo Stato ebraico sono assai migliorati, forse anche in ragione della crescente presenza russa in Israele. Allargando il discorso anche ad altri Paesi musulmani della regione – Lei stesso ha ricordato nel suo intervento odierno che “i rapporti della Russia con l’Islam non si limitano ai rapporti con il mondo arabo” – quali implicazioni ha oggi questa distensione con Tel Aviv? In alcune questioni scottanti, penso ad esempio alle tensioni tra Iran e Israele, qual è il Suo pronostico circa le posizioni che assumerà la Federazione Russa?
In primo luogo è bene fare alcune precisazioni. L’Unione Sovietica non aveva buoni rapporti con tutto il mondo arabo, bensì con alcuni Paesi arabi: in momenti diversi si sono avute buone relazioni con la Siria, l’Algeria, l’Egitto e l’Iraq. E ovviamente l’Unione Sovietica sosteneva la giusta lotta del popolo palestinese. Al contrario, con altri Paesi arabi, per esempio con l’Arabia saudita, gli Emirati Arabi Uniti o il Kuwait, l’URSS aveva pessimi rapporti. Per questo io sarei sempre attento alle generalizzazioni, soprattutto nel mondo arabo dove le situazioni politiche sono in realtà molto differenti le une dalle altre. La tendenza a mettere sullo stesso piano tutti i Paesi arabi è una pericolosa semplificazione, perché i Paesi arabi sono molto diversi: in questo atteggiamento, che pretende di pensare al mondo arabo come ad una realtà unitaria, io vedo una grossolana manipolazione condotta dagli Statunitensi e dai Sauditi. In questo modo essi costituiscono una élite sovranazionale, promuovendo la Lega degli Stati Arabi come l’organo più rappresentativo di tutti i Paesi arabi. Mi sembra un’impostazione assai scorretta, come sarebbe, mettiamo, la costruzione di una Lega di Stati germanici o germanofoni, oppure una Lega di Stati slavofoni. Si tratta in realtà di Paesi diversi, di popoli diversi aventi destini diversi, anche se accomunati da un retroterra culturale comune. Oltretutto bisogna sottolineare anche un altro aspetto: i Palestinesi, certamente, sono arabi. Ma definirli come “Arabi” è in primo luogo un’esigenza di Israele, per il quale è estremamente importante rimarcare che non esiste un popolo palestinese ma soltanto gruppi di Arabi che in alcuni momenti storici si sarebbero insediati in quelle terre. Si tratta ovviamente di una versione menzognera: i Palestinesi sono la popolazione autoctona della Terrasanta e discendono da diversi popoli di ceppo semitico, ivi compresi da Ebrei che si convertirono in varie epoche al Cristianesimo o all’Islam. D’altronde ci sono a tutt’oggi gruppi di fede ebraica che si definiscono palestinesi. Insomma, si tratta di una situazione assai più complessa di quanto certuni tentino di far passare. Personalmente, leggo con estrema cautela la stessa competizione per giungere alla “guida del mondo arabo”. Dietro tale lotta, infatti, vedo in primo luogo la mano di Israele, e poi quella dei regni del Golfo che – grazie alle rendite finanziarie di cui dispongono – tentano di divenire i leaders di questo unitario mondo arabo artificialmente costruito. Il re dell’Arabia Saudita e l’Emiro del Qatar possono porsi opportunisticamente come successori di Nasser o Hafiz al-Assad. Ma non è una successione granché auspicabile. Inoltre, ancora più errata è l’identificazione tra Arabi e musulmani: nel mondo arabo ci sono consistenti comunità cristiane, per esempio fra i Siriani, fra i Libanesi, fra i Palestinesi e fra gli Egiziani. In questo contesto è comunque molto importante, per la Russia, mantenere le relazioni anche con Israele. Il fatto che la Russia abbia instaurato buoni rapporti con lo Stato di Israele senza interrompere quelli con il movimento di resistenza palestinese e con altri Paesi arabi mi sembra uno straordinario successo diplomatico del nostro Paese, il cui ruolo può essere ancora una volta quello di mediatore, anche per quanto riguarda le tensioni con l’Iran. Con quest’ultimo Paese ci sono oggi rapporti decisamente migliori rispetto all’epoca sovietica. Come sa, dopo la rivoluzione islamica l’ambasciata sovietica fu chiusa: soltanto dopo la lettera personale che l’Imam Khomeini indirizzò a Gorbačëv furono ristabiliti i rapporti diplomatici. In buona sostanza, la Russia oggi mantiene legami con tutti i soggetti della regione. Si tratta di un caso unico, perché nessun altro Stato può vantare una simile posizione. Nessun altro Stato sostiene ad esempio la resistenza palestinese ed al contempo porta avanti colloqui con Israele e con lo stesso Iran. Circa il miglioramento delle relazioni con Tel Aviv, esse sono dovute comunque non tanto al fatto che molti Russi si sono trasferiti in Israele, quanto al fatto che i cittadini israeliani riescono ad avere una grande influenza, soprattutto finanziaria, nella vita russa, un’influenza che è comunque spropositata rispetto agli investimenti economici che essi destinano al nostro Paese. I rapporti con Israele sono qualcosa di complesso, ma a giudicare da quello che è stato raggiunto sinora credo vi siano tutte le condizioni per trovare il giusto compromesso e sviluppare relazioni paritarie con lo Stato ebraico ed anche con lo Stato palestinese da costruire. Non si dimentichi d’altra parte che la Russia ha di fatto già riconosciuto la Palestina come Stato: a Mosca, infatti, esiste già un’ambasciata palestinese.