Magazine Famiglia
Una di quelle domande a cui, su due piedi, non si sa come rispondere: "Papà, che cos'è la felicità?". L'argomento è talmente soggettivo, uno può essere felice per qualcosa che magari non interessa affatto a un altro o che quest'ultimo addirittura disprezza. E allora, che raccontare a un figlio, che per me la felicità è l'occasione di un sorriso, tanto inaspettato quanto improvviso, che può capitare un giorno qualsiasi nel bel mezzo del trambusto assurdo dell'esistenza? Oppure, che la felicità è quando si accorcia la distanza, quasi sempre insormontabile, fra il dove sono e i tanti dove vorrei essere? Dirgli, per esempio, che non mi basta il tempo che ho per fare ciò che vorrei? Che la vita assieme è soltanto lo scarto, solamente questo, di ciò che ci resta al termine della giornata? Parlargli della mia infelicità, un sentimento in definitiva non più grande, né avvertito con più forza, di quello di ogni altro essere vivente, ma che rimane pur sempre il solo e unico termine di paragone con questa idea o sogno che è la felicità? Come proporgli un contesto così tremendo - l'infelicità - per un argomento che dovrebbe essere, al contrario, il più bello fra tutti? C'è una particolare solitudine che accompagna noi tutti e non è banalmente quella di non avere amici o fratelli o animali con cui parlare o con cui passare il tempo. Siamo fin troppo circondati da voci e i giorni li riempiamo sempre, in un modo o nell'altro. Non viviamo dimenticati nel silenzio, ma persi in un frastuono assordante. La solitudine a cui mi riferisco, invece, è un dialogo mancante con noi stessi o con chi ci è maggiormente vicino. Parole che per esistere dovrebbero fare a meno della voce e delle orecchie e del vento, questo vorrei. Dovrebbe bastare uno sguardo per capirsi ed essere felici e, anche se a volte ciò succede, non è quasi mai così. Viviamo in maniera distratta, so che è inevitabile, e quel che facciamo non è nostro, ma appartiene al giorno che volge al termine, che finisce proprio quando siamo troppo stanchi, perfino per parlarci o per pensare o ricordare. Ma come dire tutte queste cose a un bambino di cinque anni?
Come fargli capire qualcosa di cui non vorrei avesse mai perfino l'occasione di accorgersi?