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LA FELICITA' TERRENA - di Giulio Mozzi

Creato il 30 maggio 2012 da Ilibri
LA FELICITA' TERRENA - di Giulio Mozzi LA FELICITA' TERRENA - di Giulio Mozzi

Titolo: La felicità terrena
Autore: Giulio Mozzi
Editore: Laurana
Anno: 2012

In anni in cui case editrici, soprattutto se “di gruppo”, paiono attente ad aggiungere continue novità a catalogo, a dispetto d’una azione di rivalorizzazione del già pubblicato – a meno che non si stia parlando d’Autore appena passato a miglior vita!, ovviamente – Laurana ha deciso di ridare ossigeno a due titoli che ritengo importanti: “Il male naturale” (già Mondadori, 1998) e “La felicità terrena” (già Einaudi, 1996), entrambi a firma di Giulio Mozzi.

È chiaro che quest’opera di rivalorizzazione, già meritevole di per sé, non toccherebbe comunque vertici qualitativi se non stessimo parlando di due Opere di grande valore. Se la casa editrice milanese ha deciso, attraverso la ripubblicazione de “Il male naturale”, tra l’altro, di svincolare il testo dalla censura cui fu sottoposto, attraverso quella di “La felicità terrena” credo si sia deciso di ridar voce a un testo tanto intimamente novecentesco, quanto in grado di aprire la strada a una narrativa che ha molto da insegnare ai nuovi Duemila.

Mi soffermerò in particolare sul secondo libro.

A dirla tutta, “La felicità terrena” non è esattamente la stessa raccolta di racconti comparsa una quindicina d’anni fa: manca all’appello “Migrazione” al tempo scritto a quattro mani con Marco Franzoso, il che fa del libro – se possibile – un corpus ancora più intimo; e son stati aggiunti “Verde e oro” e il delicatissimo “Gilda T.” insieme a uno scritto di Carlo Dalcielo-Giulio Mozzi (a chiusura e quasi a commento del volume). Questo fa dell’Opera un’altra Opera? Ni, direi. Non necessariamente.

Il suo fulcro resta ancorato a una prosa chirurgica, in grado di scomporre sin l’ultimo brandello corporeo dei diversi personaggi-protagonisti e delle loro azioni. La prosa di Mozzi pare avere il dono del bisturi e la pazienza dell’appasionato di modellismo, chiamato a ricreare su scala il monumento – qualsiasi esso sia – fin nelle profondità delle crepe incise dal tempo:

«Il bambino le cresceva bene, Maria Annunziata aveva cominciato a parlargli e lui aveva cominciato a risponderle, facendo dei balbettamenti, poi delle parole scorciate o condensate, di due o tre parole ne faceva una sola, che diceva all’improvviso […]; poi aveva cominciato a fare delle frasi, a dire voglio questo e non voglio quello, e correva sempre in giro per le due stanze della casa toccando le cose e dicendo come si chiamavano, e quando non si ricordava il nome se l’inventava, o gli dava il nome di una cosa che gli somigliava, la poltrona ad esempio si chiamava zio perché lì si sedeva sempre il fratello di Maria Annunziata, quando veniva a trovarla due o tre volte la settimana, la domenica quasi sempre» (da “Il bambino morto”, pagg.24-25).

È una prosa solo in apparenza semplice, in grado di scolpire la testa del lettore, isolando singole azioni, singoli dettagli per riannodare continuamente l’ultimo di essi a quello che segue, è quasi un loop, un ritornello che porta avanti la narrazione per gradini, profondamente modellante un sapere novecentesco d’interstizi, qualcosa che mi ricorda le pagine meno argentine di “Si sta facendo sempre più tardi” dello scomparso Tabucchi (ma attenzione!, il citato libro dello scrittore pisano è posteriore a “La felicità terrena” che, come già ricordato, appare per la prima volta nel 1996!). Di quella linea novecentesca, “La felicità terrena” credo mantenga vivo il gusto per i sottesi, per quella ricerca che non è solo di felicità ma anche di contatto umano, di sottile battaglia tra il quotidiano e ciò che esso cela ai nostri occhi, ricordandoci di non cedere a tanta ipertrofia dell’Io. Ogni racconto di Mozzi va a fondo d’una singola microvicenda che s’espande sino a invadere l’intera vita della persona, evocandomi le migliori pagine di Lodoli. Tutto l’universo situazionale sembra trarre ispirazione dalla normalità, da un’assenza di eccessi che fa risaltare – dunque per contrasto – persino il volo d’ogni singola foglia che si stacca dall’albero. Alcuni racconti presentano anche lo stesso Giulio come protagonista, immerso in quel gioco di specchi, di finzione-non-finzione, in grado di farci sentire ancora più vicino la sua voce d’Autore. È un’Opera che ricorda “Sono l’ultimo a scendere (e altre storie credibili)” per il tono con cui il contatto tra personaggi d’Autore è costantemente reiterato e trasposto nello studio dei corpi, presente e vivido sin dall’immagine di copertina di Claudia Pescatori:

«In quel momento […] pensavo che forse quella ragazza era veramente felice, avendo completamente perduto il controllo di se stessa. La tua felicità terrena, le dicevo mentalmente, non perché sia una felicità meritevole ma per il prezzo al quale è stata pagata, sarà compensata dopo il mondo con la felicità dell’appartenenza assoluta a un altro: come una caduta che non può finire, un’immersione senza annegamento, un dio nel quale ci si perde» (da “Tilli”, pag.115).

Da scoprire è il racconto “Paperoga di notte”, vera prova che si stacca dall’ambientazione dominante delle restanti pagine: quello che m’ha evocato le atmosfere migliori, più originali – ma, mi rendo conto, parliamo di gusto personale. La si legga anche così, quest’Opera, dimenticando che nel 1996 aveva già ottenuto la sua dose di successo essendo selezionata per lo Strega, la si legga come se venisse pubblicata oggi per la prima volta: ha molto da insegnare.

  

Voto i-LIBRI:

5stelle

 

  

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