Ansa di fiume 2002 Antonio Boatto
Arrivò di buon mattino.
Il fiume in quel posto faceva un'ansa ad angolo concavo. L'acqua arrivava, piroettava placida intorno alla riva arrotondata, accarezzandola tutta prima di riprendere il suo scorrerre, lento nel dolce pendio. Era un riva erbosa. Grandi alberi le facevano ombra da lontano e il sole, smorzato, non poteva scaldare la frescura del ghiacciaio che alimentava quei flutti cristallini. Tutti gli animali del bosco l'amavano, per farcisi il bagno, per bere. Era oasi ristoratrice per prede, dispensa per predatori. Chi andava per berci acqua, chi sangue, l'eterno equilibrio della Natura.
Arrivò con una spessa stuoia che distese sull'erba umida. Vi appoggiò sopra una piccola gerla con un grande pagnotta, una forma di formaggio, una pezza di lardo e due fiaschi di vino rosso. A gambe incrociate, schiena eretta, un mantello a coprire da caldo e freddo, un cappello con la tesa larga a sembrare un sombrero, viso leggermente abbassato verso l'ansa, alla sua destra una piccola scatola con leva, l'uomo sedeva immobile. Ogni tanto, quando l'insensibilità tramutava il formicolio, cambiava l'accavallata delle gambe. Se escludiamo le ciglia che sbattevano, null'altro di giorno poteva distinguerlo da una statua. Mangiava di notte.
Il primo giorno nessun animale, tolti i pesci che però si guardavano bene dal guizzare fuori, si fece vedere. Quella presenza bastava a rendere il luogo malsano, l'uomo sanno bene essere più pericoloso di un branco di lupi. Anche i predatori stavano alla larga, non solo per l'assenza delle prede, ma perché l'uomo, sanno bene anche loro, se lo attacchi, pure se lo uccidi, risponde con rappresaglie. Meglio evitare quindi, nessun pasto vale la morte. Nascosti tra gli alberi, prede e predatori guardavano la statua, senza osare farsi avanti.
Già il secondo giorno però, casualmente, ripresero gli erbivori ad avvicinarsi all'ansa. Un giovane cerbiatto, sotto gli occhi terrorizzati di mamma cervo, nella foga del gioco finì nello spiazzo, molto vicino all'uomo. Questi non si mosse, e il piccolo animale, ormai spavaldo, si avvicinò ancora, lo annusò, e niente, il temuto bipede non si muoveva, a stento se ne sentiva il respiro. Nemmeno si voltava. Fissava l'acqua, i suoi pensieri sembravano scorrere con essa per remote destinazioni. Mamma cervo dopo una prima esitazione accorse e fu lei a dare il via al resto del branco. Con circospezione, mentre qualcuno non perdeva d'occhio la statua altri cominciarono ad abbeverarsi.
Il terzo giorno ruppero gl'indugi anche camosci, cinghiali, quaglie, tortore, tutti. Tranne i predatori. I lupi guidavano con la loro saggezza e il loro esempio tutte le specie carnivore. Non si fidavano di quell'uomo, qualcosa non quadrava. Poteva nascondere una bocca di fuoco sotto il mantello che però era troppo aderente e privo di gonfiori sospetti, o aver cosparso il terreno di trappole ma questa ipotesi cozzava col fatto che tutti gli altri animali andavano in lungo e in largo sullo spiazzo senza fallo. Nonostante ciò, decisero di attendere. Osservare, studiare, e attendere.
Il quarto giorno quell'ansa, grazie all'uomo-statua, era diventata persino più accogliente di prima. Gli animali avevano capito che gli altri predatori non osavano avvicinarsi, mentre l'uomo risultava, a loro, essere completamente innocuo. Alcuni lo marchiavano persino come loro territorio. Altri lo consideravano un protettore, e correvano da lui quando in fuga, sapevano che se lo raggiungevano sarebbero stati in salvo. Gli animali sono così, non si chiedono il perché la Natura porti loro certe cose, cercano di capirle quel tanto che basta per definirle amiche o nemiche. Per gli erbivori la statua era amica, per i carnivori nemica, tutto molto semplice. La gerla intanto di notte si svuotava. Il primo fiasco era terminato e il secondo era a metà.
Il quinto giorno all'ansa pareva ci fosse una festa fin dal mattino. Arrivarono animali anche da altri boschi intorno, c'era un grande caos e nonostate questo l'uomo, imperturbabile, restava statuario nella sua posa. Quando accavallava le gambe fino al giorno precedente gli animali un poco si spaventavano, ma ora non più, anzi. Era per loro un segno di vita, quella vita che teneva lontano i predatori, che faceva capire loro che se solo voleva poteva muoversi. Gli ultimi ad unirsi alla felicità collettiva furono i pesci, che cominciarono a guizzare in estro fuori dall'acqua, disegnando come delle fontane. L'uomo, a un certo momento, alzò leggermente la testa. La notte prima aveva festeggiato anche lui. Con una robusta dose di tutto quanto rimasto nella gerla, aveva preparato le forze che gli servivano. Gli animali lo guardarono come i fedeli che aspettano un sermone. Lui invece non disse nulla, alzò il braccio destro e lo calò sulla leva della scatola. Bummmmmm...
Il sesto giorno l'ansa brulicava di uomini, c'era molto lavoro da fare. I lupi osservavano da lontano, per loro era l'ennesima sconfitta, contro l'uomo non c'era niente da fare, ma erano ancora vivi, e liberi.
Il settimo giorno, alla festa patronale di San Pantagruele, ci furono grandi libagioni di carne e pesce. Come sempre tutti mangiarono senza chiedere a Felice, detto Il Tibetano, come avesse fatto a procurare tanto ben di Dio. Ogni anno aumentava la quantità, ogni anno faceva tutto da solo, ogni anno usava una strategia diversa. Felice sapeva che nessuno, tranne lui, poteva cacciare coi suoi metodi, impossibili per chiunque non avesse la sua pazienza, la sua tempra. Diceva soltanto - faccio agli animali quello che i pochi uomini fanno sempre ai molti uomini, solo che con gli animali è più difficile - ma nessuno lo capiva.
Robydick