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La festa. Il fiume. Il sogno

Da Pietroinvernizzi

La festa. Il fiume. Il sognoLe voci intorno a me si fanno sempre più fioche e lontane nella mia mente. Sono io che, seduto su questa sedia, mi sto allontanando perso in pensieri. Qualche stoviglia contro l’altra mi scuote dal torpore ed accenno un sorriso a chi mi rivolge la parola o mi lancia uno sguardo cercando consenso. Ma perché sono qui? Oltre il vetro appannato del soggiorno gracchiano i corvi ed il cielo si abbassa fino a sfiorare i tetti delle case come enorme soffice cuscino bianco. L’immensa quiete del freddo invernale lì fuori, mi appare adesso così attraente che, immobile, scalpito sulla sedia. Mangio ancora un dattero e a fatica altra frutta secca accompagna il caffè. Ci si vuole bene tra queste mura e si è felici di questa atmosfera, la si celebra con un fitto chiacchiericcio. Anche io sono felice, ma un po’ meno, solo perché immagino il corvo gracchiare e l’eco dei miei passi che spezzano il silenzio su foglie e rami gelati. Non resisto più, comincio a salutare tutti affettuosamente, lento, eppure si capisce il fare sbrigativo. Non ho una buona scusa, improvviso un appuntamento per salutare amici e già pregusto l’aria pungente che fa arrossare il viso. Avvolgo la sciarpa, cappello di lana e in un sospiro di vapore sono fuori dalla porta. Non sento il corvo, ma la città è immobile e spettrale, ancor più bella di come la immaginassi.
Accendere la mia vecchia auto è una scommessa in questa stagione, ma è una scommessa che vinco quasi sempre.
Anche la musica della radio si fa presto fioca e lontana nella mia mente, non so ascoltare neppure lei, sono suoni di contorno mentre i pensieri si affacciano sulle rive del mio vecchio fiume, immagino la bruma, bassa sopra i misteriosi disegni che animano la superficie dell’acqua. Lenta e plumbea scorre. Sono linee complesse in rapido movimento, disegni cashmere, piccoli vortici e increspature; penso che a saperle leggere racconterebbero tutte la stessa verità, la storia del mondo.

paesaggio-invernale-con-corvi

Armo la canna da lancio compiacendomi del freddo che rallenta le mie dita. A fatica riesco a stringere il nodo. Adesso sento gracchiare, eccome, un gruppetto di grandi corvi neri mi guarda dall’alto di un albero spoglio e, se non fosse per loro, il mondo sarebbe immoto. Mi concedo un sorso di whiskey. Miracolosamente quella gelida fiaschetta di metallo con incisa una trota in salto provoca una fiammata di calore nel mio stomaco. Pochi passi in una vegetazione rada in scala di grigio e marrone e mi appare lui: il mio vecchio fiume.
Sarò pazzo, ma mi rendo conto che anche lui mi ha visto ed il suono dei suoi gorghi si fa più forte per salutarmi. Non è ancora il momento di lanciare, è il tempo dei convenevoli. Così mi siedo sul pendio di ciottoli della sponda, con movimenti misurati estraggo un sigaro  lungo e sottile e lo accendo. Non so se davvero mi piace fumare, ma in questi momenti ne adoro la ritualità, mi compiaccio del gesto e dei tempi lenti che mi impone. Così il vapore del respiro si è perso in nuvole di fumo denso e il pensiero fa capriole su quelle nuvole e plana sulla bruma, sulla superficie dell’acqua e finalmente cattura la sua forza. Sento la profondità e misuro la velocità dell’acqua, avverto i ripari nella buca ed il rigiro lento dietro i piloni del grande ponte a cinque arcate. Sento loro: i miei sogni incarnati, sfuggenti creature acquattate in ogni esitazione della corrente, tra tronchi sommersi e massi di fondale; i sogni sono pesci, a volte si inseguono ed il più grande sbrana il più piccolo. Questa è la voracità alla base di tutto, l’intrinseca avidità della catena alimentare rende insaziabile la fame della mente. Così controllo ancora una volta la tenuta dei nodi, la punta degli ami ed infine apro l’archetto del mulinello. La canna è innanzi a me sorretta dalla mano destra, l’indice trattiene il filo e soppesa i 30 grammi di quell’esca luccicante che adesso dondola e freme per volare lontano. Il sigaro è spento, un ultimo sbuffo di vapore esce dalla mia bocca mentre corre un brivido lungo la schiena, è tempo di muoversi un po’ e aprire le danze. Con uno scatto deciso del polso ripeto il gesto ben noto al mio corpo, la canna si flette veloce indietro e avanti e si distende con pochi contenuti sussulti mentre il filo sibilando disegna nell’aria una lunga elegante traiettoria fino a un punto lontano nell’acqua. Ecco, il legame è diretto e mi immergo con l’esca, conto i secondi verso il fondo e, quando manca il fiato, scatta l’archetto ed inizio il recupero. Inizia la danza dell’artificiale. E’ un ballo in cui io decido il ritmo ad ogni passo, ad ogni giro di manovella, è il mio corteggiamento al più grande dei sogni. Il corteggiamento è un rituale complesso, lancio dopo lancio inseguo il sogno e il sogno, a volte, insegue l’esca che gli offro.



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