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La filosofia e l’educazione degli adulti

Creato il 06 dicembre 2012 da Faustodesiderio

Hilary Putnam è un filosofo pazzo, ma ce ne fossero di filosofi e di pazzi come lui. Il dibattito casareccio sul nuovo realismo – leggi la tempesta in un bicchier d’acqua tra Maurizio Ferraris e Gianni Vattimo con le incursioni eleatiche di Emanuele Severino – altro non è che una invenzione del filosofo americano che, un bel po’ di anni fa, nel saggio Cervelli in una vasca, immaginò uno scienziato pazzo che estraeva un cervello umano dal corpo, lo poneva in una vasca piena di liquido nutriente e lo connetteva a un computer che era programmato per simulare la vita del corpo. Risultato dell’esperimento pazzo? Il cervello continua a vivere nell’illusione d’avere un corpo, di compiere esperienze, mentre in realtà tutto questo non è che l’illusione dettata dal computer dello scienziato. L’esperimento dello scienziato pazzo del filosofo pazzo ha come suo bersaglio lo scetticismo (e il realismo metafisico). Ma, in fondo, l’esperimento dei cervelli in una vasca altro non è che la rivisitazione contemporanea del maligno genio ingannatore di Cartesio e delle sue Meditazioni metafisiche. Chi ci garantisce l’esistenza della realtà esterna e della nostra stessa esistenza? Siamo effettivamente ciò che crediamo di essere? Sogniamo o siamo desti? Come possiamo essere certi di non essere cervelli in una vasca, manipolati da uno scienziato geniale e maligno?

Perché Putnam finge di essersi bevuto il cervello o di essersi fatto una bella lavata di testa (un po’ come Giorgio Gaber si faceva lo shampoo)? Il filosofo americano sostiene che se fossimo cervelli in una vasca o a mollo – un po’ come il famoso uomo a mollo del detersivo Dash -, anche se conducessimo una vita apparentemente normale e ritenessimo d’avere esperienze e sensazioni consuete, normali e abitudinarie, non potremmo renderci conto di essere cervelli in una vasca e ignoreremmo completamente il problema. Se non fossimo comuni mortali ma cervelli in una vasca avremmo dei significati diversi e le nostre parole non avrebbero lo stesso riferimento. Le stesse parole di “cervello”, “vasca”, “acqua”, “computer” non sarebbero rese sensate dagli oggetti a cui fanno riferimento ma solo dalle stimolazioni del computer manovrato dalla genialità perversa dello scienziato pazzo. Se fossimo realmente cervelli in una vasca e dicessimo a noi stessi di essere cervelli in una vasca muoveremmo da un’ipotesi sulla conformazione del mondo di molto diversa a quella alla quale ora facciamo riferimento: per cui il nostro cervello in una vasca farebbe riferimento a cervelli e vasche diversi da quelli ai quali siamo abituati (ammesso che abbiate mai fatto esperienza del vostro cervello o del cervello altrui e, cosa più difficile, ammesso che a casa abbiate una vasca e non la doccia). Le parole sarebbero le stesse, ma i fatti diversi.
Putnam in vita sua ha cambiato idea più di una volta. Anche sull’esperimento del cervello annacquato. Ma che importa? Egli stesso si diverte dell’immagine che di lui è data come del filoso che cambia opinione: «Non che mi vergogni di questa immagine; non ho mai voluto essere il tipo di filosofo che finge di avere la risposta definitiva a tutte le grandi domande». Invece, il filosofo americano ha dato con il suo lavoro a cavallo tra scienza, filosofia ed etica delle risposte più terra terra ma utili per cercare di capire qualcosa di questa vita e di questo mondo in cui a volte abbiamo l’impressione di essere manovrati da qualcuno pur non essendo cervelli in una vasca.
L’ultimo libro di Hilary Putnam è stato ora pubblicato in Italia da Il Mulino e s’intitola La filosofia nell’età della scienza. Si apre con un saggio introduttivo, senz’altro istruttivo, in cui Mario De Caro e David Macarthur dicono che Putnam è stato definito «la storia delle filosofia recente in compedio» ed essendo un filosofo che in un’epoca di specializzazione sempre crescente è capace di riunire in sé immaginazione concettuale, genialità matematica, erudizione scientifica, interessi umanistici e sensibilità morale lo paragonano ad Aristotele, Leibniz, Kant, Mill o Bertrand Russell. Forse, è un po’ esagerato ma leggendo il libro ci si rende conto che qualcosa di vero nel paragone pur c’è. Il primo capitolo del libro è semplicemente intitolato “Scienza e filosofia” e – sbaglierò – ma qui Putnam rivendica il valore della filosofia più di quanto non faccia con la scienza. Sarà perché non si avverte il bisogno di segnalare e sottolineare il valore della scienza, mentre si avverte la necessità, almeno in prima battuta, di rispolverare quel vecchio arnese che è la filosofia che, in fondo, è stata messa in soffitta non solo dalla scienza e dagli scienziati ma anche dalla filosofia e dai filosofi. Non è un caso che Putnam inizi la riflessione prendendo le mosse dalla critica di Heidegger alla tradizione filosofica e metafisica occidentale in blocco, da Platone a Hegel, considerandola né più né meno che un grande errore dal quale uscire. E quale sarebbe allora la soluzione di Heidegger? Diventare – dice Putnam – tutti heideggeriani, che sarebbe un mondo da incubo, allo stesso modo se il mondo fosse tutto platonico o aristotelico o scolastico. Per fortuna, come diceva il poeta, ci sono più cose in cielo e in terra che nella tua filosofia, figurarsi nella filosofia di Heidegger che batte e ribatte sulla stesso chiodo dal principio alla fine.

Il positivismo logico – una sorta di filosofia scientifica – ha nutrito l’ambizione di risolvere la filosofia nella scienza una volta e per sempre. Nel 1934 Carnap disse a mo’ di profezia: «Tutte le affermazioni che appartengono alla Metafisica, all’Etica regolativa e all’Epistemologia (di tipo metafisico) hanno il difetto di essere di fatto non verificabili e perciò non scientifiche. Nel Circolo di Vienna siamo soliti descrivere queste affermazioni come dei nonsense». Ma la posizione dei circolisti viennesi era troppo radicale, talmente radicale che non solo gli stessi circolisti non la condividevano in pieno – ci fu chi disse che il principio di verificazione «è una schifezza» – ma risultava essere problematica per la stessa scienza in cui non tutto e non sempre è verificabile. Insomma, il tentativo di risolvere la filosofia nella scienza non andò in porto. Invece, la filosofia postmoderna ha fatto il contrario cercando di risolvere la scienza nella filosofia mostrando che ogni pretesa di descrivere fedelmente i fatti e la realtà è destinata allo scacco e ogni “rappresentazione” della realtà è in definitiva una finzione.

Se era radicale la posizione di Carnap, è altrettanto estrema la posizione di Derrida, tanto che un altro filosofo americano – Richard Rorty, egli stesso postmoderno ma moderatamente – disse che le argomentazioni di Derrida, per non dire di alcune di Nietzsche, «sono semplicemente tremende». Che dice Putnam? Liquida così la faccenda: «Ma, invece di affrontare in questa sede un simile vespaio, vorrei semplicemente dire che il “rappresentazionalismo” – cioè l’idea secondo cui possiamo rappresentare con il linguaggio parti e aspetti della realtà e spesso ci riusciamo – non è se non quello che un tempo veniva definito “realismo”, e il realismo non diviene un errore imperdonabile che si può guardare dall’alto in basso e con aria di superiorità, solo perché un certo numero di professori gli hanno dato il nome inedito di “rappresentazionalismo” e lo hanno dichiarato tale».
Bene. Ma che ne è della filosofia? Se non si riduce a scienza e se la scienza non è finzione, allora, qual è il ruolo della filosofia? Putnam avanza due “definizioni” necessarie che ora riporto. La prima è un po’ lunga, ma ne vale la pena (è di Stanley Cavell): «Ma se il bambino, sia esso piccolo o adulto, mi chiede: Perché mangiamo gli animali? o: Perché alcune persone sono ricche e altre povere? o: Chi è Dio? o: Perché devo andare a scuola? o: I neri ti piacciono come i bianchi? o: Di chi è la terra? o: Perché esiste qualcosa? o: Come ha fatto Dio ad arrivare fin qui?, posso scoprire che le mie risposte sono insufficienti, mi può sembrare di uscire di senno se non dico, con buona volontà: “Questo è quello che faccio” (…), e accettarlo. Allora io posso pensare che le mie conclusioni scontate non siano mai state conclusioni a cui io sia arrivato, ma che io le abbia soltanto assorbite, che siano meramente convenzionali. Posso smussare questa comprensione attraverso l’ipocrisia, il cinismo, o la spacconeria. Ma posso sfruttare l’occasione per tornare sulla mia cultura e chiedermi perché ci comportiamo così, giudichiamo così, siamo arrivati a queste decisioni (…). Nel filosofare devo spingere il mio stesso linguaggio e la mia stessa vita all’immaginazione. Ciò che richiedo è un convenire dei criteri della mia cultura, al fine di confrontarli con le mie parole e con la mia vita, così come io le porto avanti e come posso immaginarle; e, al tempo stesso, per confrontare le mie parole e la mia vita, con la vita che le parole della mia cultura possono immaginare per me; per confrontare la cultura con se stessa, seguendone le linee che si incontrano in me. Questo mi sembra essere un compito degno del nome di filosofia (…). In questa luce, la filosofia diventa l’educazione degli adulti».

La seconda definizione, presa dal saggio di Wilfrid Sellars La filosofia e l’immagine scientifica del mondo, è molto più breve (e anche deludente): «Lo scopo della filosofia è comprendere come le cose, nel senso più ampio possibile del termine, stiano insieme, nel senso più ampio possibile del termine». La prima definizione della filosofia corrisponde, grosso modo – molto grosso modo – al suo aspetto morale. La seconda al suo aspetto teoretico. Nella storia della filosofia – e nella storia e basta – vi sono grandi figure che di volta in volta hanno rappresentato al meglio il valore morale della filosofia e il valore teoretico. Così considerata la filosofia non sembra una “disciplina” in crisi. Essa non è mai stata “ontoteologia” – come la critica hedeggeriana ritiene – e anche quando i filosofi si occupavano di “ontoteologia”, ossia di Dio come fondamento del mondo e della vita e del sapere, si occupavano di molto altro ancora. Ecco perché Putnam considera «profondamente sbagliata» l’idea di una crisi che mina alle basi la filosofia: «E se le questioni filosofiche in effetti non si possono “risolvere”, nel senso che le avremo sempre con noi, non c’è da drammatizzare, perché si tratta di una cosa meravigliosa».

tratto da Liberalquotidiano.it del 6 dicembre 2012



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