Non si placa l'ondata di terrore in Europa e alle porte dell'Europa. Questa volta ad essere colpita non è la Francia dei raid aerei in Siria e dell'assimilazione culturale delle seconde generazioni, ma la Turchia a maggioranza musulmana di Erdoğan. Il 12 gennaio un attentatore suicida si è fatto esplodere nel cuore di Istanbul, nella Piazza Sultanahmet tra la Moschea Blu e la basilica di Santa Sofia; il tragico bilancio è di dieci morti (la maggior parte dei quali di nazionalità tedesca) e quindici feriti. Istanbul è la città simbolo per eccellenza della cultura e della storia turco-ottomana; ma è anche uno dei più importanti centri economici e turistici della penisola anatolica. Le indagini sono ancora in corso ma la pista dell'IS è la principale; inoltre, alle normali difficoltà dovute alla confusione che generalmente segue questo tipo di eventi, deve aggiungersi, per gli osservatori esterni alla Turchia, la difficoltà derivante dalla decisione del Presidente Erdoğan di imporre il divieto, per i media turchi, circa la diffusione delle notizie relative all'esplosione e alle conseguenti indagini.
Il 2015 non è stato un anno facile per la Turchia che ha dovuto rispondere ad una serie di attentanti, primi fra tutti quello di Suruç 1 e quello di Ankara 2, e più in generale ha dovuto fare fronte ad una situazione geopolitica complessa ed intricata che ha visto in ballo numerosi e spesso contrastanti interessi. Così, anche il 2016 si apre con un attentato, con una consistente serie di incognite e probabilmente con la necessità di (ri)valutare la politica seguita fino a questo momento. Ed anzi, il 2016 esordisce con un carico maggiore di interrogativi qualora si prenda in considerazione la notevole differenza che sussiste tra gli attentanti passati e quello recentissimo del 12 gennaio. Negli attentanti precedenti il bersaglio era chiaramente l'opposizione curda in Turchia, evidenza che non sembra stupire soprattutto qualora si tenga in debita considerazione la posizione dei Curdi in Siria e in Iraq. All'esercito curdo siriano e ai peshmerga iracheni si deve infatti l'attuale riconquista di molti territori caduti in mano allo Stato Islamico dopo la proclamazione del Califfato nel giugno del 2014. L'attentato che ha avuto luogo ad Istanbul il 12 gennaio, invece, potrebbe essere qualcosa di diverso rispetto ai fatti di Suruç ed Ankara: per la prima volta l'attentato potrebbe essere un messaggio diretto proprio alla Turchia di Erdoğan.
Al momento non si può affermare che si sia trattato di un attentato ideato e organizzato dall'ISIS: bisognerà logicamente attendere lo sviluppo delle indagini. Questa pista, del resto, non convince neanche parte degli analisti. Il dubbio, assolutamente lecito, riguarda la contraddizione intrinseca che caratterizzerebbe un simile atto qualora effettivamente organizzato dalla longa manus dello Stato Islamico. La battuta di arresto che lo Stato Islamico ha subito e continua a subire sul terreno in Siria e Iraq avrebbe dovuto quantomeno rendere i vertici di Daesh maggiormente cauti nel colpire e quindi aumentare la tensione e i controlli nel Paese che più è funzionale a molte dinamiche che lo interessano, prima fra tutte il passaggio dei foreign fighters da e per la Siria. Del resto il fatto che non si siano ancora avute precise rivendicazioni dell'attentato in tal senso sembrerebbe confermare questa ipotesi. Nell'anno che si è appena concluso, abbiamo imparato a conoscere, del resto, gli effetti della propaganda "al cuore e alle menti" del califfato su quelli che sono stati definiti "lupi solitari". Proprio quella di un lupo solitario sembra essere, infatti, l'ipotesi maggiormente accreditata in riferimento ai fatti di Istanbul.
Tuttavia, prescindendo dall'ideazione, organizzazione e realizzazione dell'attentato, qualora fosse confermata la matrice jihadista, i fatti di Istanbul costringerebbero il Presidente Erdoğan difronte alla prima concreta conseguenza della politica che ha portato avanti negli ultimi anni nell'area mediorientale e mediterranea. Insomma, quella che potremmo definire quantomeno una politica dell'ambiguità giocata da Erdoğan, sembra ormai non poter più reggere, schiacciata dal peso degli eventi e dalle decisioni causa-effetto prese dalle altre parti sedute al tavolo di questa partita. Il tutto ovviamente in funzione anticurda. Poi, il problema dei profughi e le promesse dell'Occidente e dell'Europa hanno ricordato ad Ankara che avrebbe potuto giocare anche un'altra carta: quella della Turchia membro della NATO, della Turchia al di là del Bosforo, quella che guarda all'Occidente e sogna l'Europa. Fatte le sue valutazioni, Erdoğan ha deciso di aderire alla coalizione a guida americana che è stata schierata (nei cieli, si intende) di Iraq e Siria. Proprio seguendo questa nuova strada la Turchia ha diffuso, poche ore prima dell'attentato, il clamoroso dato relativo al respingimento e al fermo di complessivi 35.000 volontari che intendevano attraversare il confine turco per unirsi alle forze dello Stato Islamico.
Insomma, se qualcosa questo attentato sta a significare, è che la Turchia di Erdoğan non può più muoversi sulla sottile linea dell'ambiguità su cui ha camminato finora, non può più lasciarsi trascinare dall'irrefrenabile istinto di condurre la propria guerra su due fronti, quello curdo e quello jihadista, senza decidere quale posizione assumere nel difficile gioco delle parti. L'attacco su due fronti che oggi sembra attanagliare la Turchia di Erdoğan non è altro che la conseguenza diretta della guerra su due fronti condotta finora da Ankara. Il rischio che la Turchia, bastione musulmano in Europa alle prese da decenni con la volontà indipendentista curda, corre in questa delicata contingenza è quello di divenire un nuovo fronte caldo di quella guerra combattuta ormai da cinque lunghi anni a pochi chilometri dai suoi confini. Aumenta dunque l'insicurezza in relazione ad un paese NATO che è indubbiamente la chiave di volta non solo per la lotta contro il terrorismo ma anche per affrontare questioni fondamentali come la gestione del flusso dei migranti.
Infine, occorre fare riferimento ad un ultimo aspetto fondamentale che prescinde dalle motivazioni e dall'organizzazione di questo attentato e che si presenta, ancora una volta, come una delle conseguenze incontrollabili di questo tipo di attacchi: il crollo del turismo. Consapevolmente o inconsapevolmente, intenzionalmente o no, l'aver colpito il centro storico, culturale e turistico di una delle città maggiormente visitate della penisola anatolica, segnerà un duro colpo per l'economia turca legata al terzo settore. Abbiamo già imparato a conoscere questa tattica: il Museo nazionale del Bardo e le spiagge in Tunisia, l'areo precipitato nel Sinai, il cuore di Parigi e ora una delle piazze centrali di Istanbul; i paesi colpiti assisteranno inermi alla drastica riduzione delle entrate generate normalmente dal settore turistico e per paesi in forte difficoltà economica come la Tunisia, l'Egitto e la Turchia il turismo finisce per essere la voce più importante del bilancio statale e finanche una fonte primaria e imprescindibile di sussistenza. Una strategia di guerra economica consapevolmente perseguita o una generale strategia del terrore? Quale che sia la risposta il risultato fondamentalmente non cambia: i flussi turistici in Turchia avevano già registrato un forte calo nel 2015 e dopo i fatti di Istanbul non sembra potersi prospettare una situazione maggiormente rosea per il 2016.
Per avere qualche certezza in più circa i fatti del 12 gennaio bisognerà, dunque, aspettare la conclusione delle indagini con la consapevolezza, tuttavia, che la verità che emergerà potrebbe essere semplicemente quella più funzionale alle esigenze di Erdoğan e ai suoi prossimi passi. Si corre infatti il rischio che l'attentato possa essere utilizzato per fomentare una nuova campagna contro i Curdi anche se in parte questo rischio sembra essere stato scongiurato dalla velocità stessa con cui le autorità turche hanno parlato di un attentato di matrice islamica, non accusando immediatamente e come ci si sarebbe aspettati il PKK. Tuttavia il Presidente Erdoğan sta vivendo un momento di debolezza politica, questo nonostante la recente vittoria alle elezioni del 1° novembre; la carta della "strategia della tensione" che Erdoğan ha già giocato una volta in concomitanza proprio con quelle elezioni potrebbe essere ancora una volta scelta come la soluzione da perseguire. Magari questa volta cambiando l'etichetta della categoria del "nemico", rimpiazzando i Curdi con i fanatici jihadisti dello Stato Islamico.
Ciò che sembra certo è la necessità del governo turco di trovare una nuova minaccia esterna alla sicurezza del paese così da ricompattare un'opinione pubblica ormai esitante e diffidente circa la politica, estera e interna, portata avanti da Erdoğan. Ciò che sembra ormai palese è che la Turchia dovrà trovare il modo di affrontare, e dovrà farlo al più presto, le proprie ambiguità, ambiguità dovute da un lato al suo stesso essere terra di confine tra due mondi, porta d'ingresso per l'Oriente e contestualmente d'uscita per l'Occidente, dall'altro incontestabilmente dovute alla quantomeno temeraria politica condotta da Erdoğan negli ultimi anni.