(Rear Window)
Regia di Alfred Hitchcock
con James Stewart (L. B. “Jeff” Jeffries), Grace Kelly (Lisa Freemont), Wendell Corey (detective Thomas J. Doyle), Thelma Ritter (Stella, l’infermiera), Raymond Burr (Lars Thorwald), Judith Evelyn (Cuore Solitario), Ross Bagdasarian (il compositore), Georgine Darcy (miss Torse, la ballerina), Irene Winston (la signora Thorwald).
PAESE: USA 1954
GENERE: Thriller
DURATA: 112’
Costretto su una sedia a rotelle in seguito ad un incidente, il fotografo “Jeff” Jeffries combatte la noia spiando i dirimpettai dalla finestra del suo appartamento. Quando si convince di aver assistito ad un omicidio, convince la fidanzata Lisa, che vorrebbe sposarlo, ad indagare sulla vicenda…
Secondo incontro tra Stewart e Hitchcock, sei anni dopo il fortunato Nodo alla gola. Il risultato, tratto da un racconto di Cornell Woolrich sceneggiato da John Michael Hayes, è uno dei capolavori del regista inglese, il suo film più semplice (apparentemente) e lineare quanto complesso e profondo. Un vero e proprio film sfida, girato con una sola scenografia (il cortile) e un solo punto di vista (quello del protagonista). In mano a qualunque altro regista sarebbe stato una noia mortale, ma per Hitchcock il virtuosismo, mai fine a se stesso, diventa un modo per accentuare la suspense, dettata dall’immobilità del protagonista e dal suo punto di vista “parziale”. Che è poi il punto di vista del cinema, inteso non tanto come voyeurismo – anche se Jeff è senza dubbio un voyeur – quanto come “visione” attraverso gli occhi di qualcun altro. Il punto di vista cambia soltanto quando l’apice drammatico necessita un visione d’insieme (la morte del cagnolino), a dimostrare che la tecnica di Hitchcock è sempre e comunque subordinata alla drammaturgia e mai gratuita. Come giallo è senza uguali, ma conta anche come metafora del mondo (i dirimpettai di Jeff sono tutti “tipi”) e, soprattutto, dell’amore (ognuno di essi è protagonista di un diverso stadio dell’amore). In un gioco di specchi e simmetrie geniali – Thorwald e la moglie invalida, Lisa e Jeff invalido – Hitch riprende il tema a lui caro del viaggio iniziatico della coppia e firma uno dei suoi film più teneri, ironici, divertenti. Anche uno dei più riusciti per quanto riguarda il brivido. Da vero e proprio psicologo del cinema, Hitch ci mette nella stessa, scomoda posizione di Jeff e ci trasforma in lui, riuscendo a trasmetterci tutta l’inquietudine di un personaggio che non può muoversi e, quindi, difendersi. Jeff è uno spettatore cinematografico in tutto e per tutto, non sempre in grado di accorgersi che lo spettacolo può uscire dalla cornice dello schermo e – metaforicamente o, come in questo caso, fisicamente parlando – venire a romperti le gambe.
Inarrivabile nella creazione e nella descrizione dei personaggi (come dimostra il fatto che tutto ciò che dobbiamo sapere sul protagonista lo scopriamo in un minuto, all’inizio, quando la macchina da presa fa una carrellata sui suoi effetti personali, o che Jeff conduca le proprie indagini soltanto con gli attrezzi del proprio mestiere di fotoreporter), strepitoso nei dialoghi e originalissimo nelle trovate. Rispetto a molti Hitchcock passati e futuri, possiede un forte realismo di fondo (negli effetti sonori, nell’andamento della vicenda). Lo dimostra anche il fatto che non ci sia musica extradiegetica: ciò che sentiamo lo sente anche il protagonista, cosa che tende ancor più all’immedesimazione. Geniale la trovata del vicino di casa compositore che, pian piano, compone, suona, orchestra e infine incide la sua canzone. Hitch è il tizio che carica l’orologio da parete in casa sua. Il regista lo considerava uno dei suoi film prediletti, anche se non era soddisfatto delle musiche di Franz Waxman. Abituali i collaboratori: George Tomasini al montaggio, Robert Burks alla fotografia. Grande interpretazione di Stewart, ma la scena glie la ruba quasi sempre la Kelly, bella e dolce come non mai. Un capolavoro inarrivabile, un film assolutamente imperdibile.