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La finestra sul rosso © Nicola Nicodemo
Una barca arenata sulla sabbia. Chissà da quanto tempo era lì, abbandonata in balia delle onde. Mentre l’alta marea la premeva verso le dune della spiaggia dorata, la risacca la trainava via con sé, nelle acque sanguigne di un tramonto estivo. La vita sembrava finisse là, come quella del pescatore che aveva lasciato le reti intrecciate nell’umida rena. Il sole si tuffava nell’orizzonte rossastro. E io seguivo le impronte che si gettavano in acqua. Disegnavo parole, cancellate dal mare. I miei desideri. I desideri di tornare l’estate dopo su quella stessa spiaggia, di vedere ancora lo stesso tramonto. Nella spuma bianca svanivano i miei sogni. Rapiti dall’oceano, si disperdevano nell’impetuosità dei flutti che correvano lontano, ad altre rive e ad altre sponde, dove altri uomini giacevano in attesa che nell’orizzonte si materializzassero le proprie speranze. Ero uno di loro. Appoggiato alla barca aspettavo che il sole scomparisse. La sua luce intensa mi conquistava, e col bagliore dello sfondo incandescente, nella mia mente emergevano ricordi che credevo d’aver perduto. Un gemito trasalì mentre fissavo i riflessi del sole veleggiare sulla cresta delle onde. Ritrovavo, lì dove il cielo si mescolava al mare, il mio sorriso: l’espressione magica di quand’ero bambino. Rividi me stesso, forse vent’anni prima. Correvo sulla riva, inseguendo l’oggetto misterioso delle mie fantasie. Tentavo di afferrare l’incorporea brezza che soffiava fresca dalle profondità del mare, e che sfiorava la mia pelle raggrinzita in un’emozione di inquietudine. Avevo paura di perdere quella illusione, paura che essa mi abbandonasse lì, in quel deserto di sabbia, come se tutto ciò che mi circondava fosse svanito nel nulla. Rividi il sangue della ferita, quando scivolai sugli scogli, curioso com’ero, ansioso di esplorare il mondo. E quella spiaggia infinita era quanto di più sconfinato potessi vedere, e quelle ripide rocce erano quanto di più alto potessi scalare. La sagome della vecchia casa dei nonni, dove avevo sempre trascorso le vacanze fino a quell’estate, si affacciava ancora sulla sabbia, ma aveva perso il suo fascino. Tanti anni fa pareva un avamposto massiccio da cui scorgere le navi nei miei giochi di pirati. Adesso non ne restava che qualche brandello di muro e il tetto crollato era stato avviluppato da una coltre di rovi. Rividi gli occhi arrossati della nonna, e le lacrime che le solcavano il viso ruvido e indurito dal tempo, quando le dissero di abbandonare la casa in cui aveva sempre vissuto. Non avrebbe visto mai più il sole infuocato spegnersi nelle acque, o le sagome nere dei gabbiani volare basse sulla linea purpurea dell’orizzonte. Non avrebbe più sentito il lieve profumo dei gigli che crescevano faticosamente sulla sabbia, né dei papaveri vermigli che spuntavano lungo la strada. Non avrebbe più sentito le onde infrangersi ostinate contro gli scogli, né il suono armonioso del pianto del cielo, il ticchettio delle gocce d’acqua che zampillavano sulla superficie lucente. Corsi a piedi nudi in riva al mare, e piansi. La fine di quell’estate fu la peggiore. Il giorno si arrendeva al buio, tra un cielo limpido e un mare piatto, ma il freddo mi invadeva. Provai una sensazione logorante. La sensazione di aver perso qualcosa, che non avrei riavuto più. Mi gettai in acqua, e nuotai verso il largo, cercando di riprendere ciò che mi era stato sottratto. Ma l’immensità del mare mi separava dal senso di compiutezza che avrei voluto provare. Rimasi, fermo, nella corrente che mi trainava verso la riva, come una forza contrapposta che mi allontanava dal tesoro che mi aveva strappato. Quando il sole s’immerse, non se ne vide più che un fazzoletto di fuoco. Steso sulla riva guardavo le nuvole purpuree sfilare in una mesta danza sopra di me. Alzai la testa. Guardai il tramonto. Me ne andai, con la consapevolezza che non avrei mai rivissuto quell’emozione un’altra volta. Ora, invece, ero lì, di nuovo, dopo tanti anni. Ma la sensazione di aver perduto qualcosa rimaneva. C’era un vuoto dentro di me. Le nuvole violacee mi ricordavano figure familiari. Mi voltai. La sagoma della vecchia casupola era quasi scomparsa sotto la massa vorace della macchia che aveva divorato le sue pareti. Il ricordo del luogo dei miei sogni di bambino, quando aspettavo l’estate per venire qui, su questa spiaggia, mi colmò di gioia mista di un’acre malinconia per i giorni perduti. Mi avviai verso quel fitto roveto. Sorrisi. Il mare mi aveva restituito improvvisamente una speranza. Restai immobile. Immaginai le mura di mattoni rossi sotto le spine. Sorrisi ancora. L’estate successiva mi affacciai alla finestra di quella vecchia casa. L’edera non si arrampicava più sui fianchi dell’edificio, i pezzi ceduti del muro erano diventati solide pareti, che sostenevano il tetto. Fissai il mare, quell’infinita distesa amaranto che si estendeva fino all’indefinito confine del mondo. Non avevo più timore di tuffarmi nelle sue tiepide acque. Non avevo più paura di perdermi tra le sue onde. Puntai lo sguardo nel vuoto. Forse in quella direzione, a miglia e miglia di distanza, c’era qualcuno che, come me, nel mare aveva ritrovato le sue speranze.
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