Tremonti non ha fatto nulla. Monti ha firmato accordi che non sono stati ratificati. Così l'Italia non stana i furbetti delle tasse (di Vittorio Malagutti - l'Espresso)
Qualcosa si muove, è vero. Messi sotto pressione dai grandi governi dell'Occidente, Stati Uniti in testa, alcuni campioni dell'offshore hanno lanciato segnali di disponibilità. A metà aprile un bastione del segreto bancario come il Lussemburgo si è detto pronto ad aprire i conti dei propri istituti di credito alle indagini fiscali degli altri partner dell'Unione europea. In Svizzera la lobby dei banchieri fa sempre più fatica a reggere le pressioni dei politici locali, preoccupati dall'offensiva internazionale guidata dagli Stati Uniti. Fin dal 2009, infatti, l'amministrazione Obama ha annunciato una crociata contro i Paesi canaglia della finanza. L'Europa si è accodata. Non è un caso che tutto sia partito quattro anni fa, con l'esplosione della crisi. In tempi di magra per i bilanci pubblici, i governi occidentali cercano nuove risorse dove possono, anche nelle casseforti offshore. E d'altra parte, in mancanza di meglio, i politici offrono lo scalpo dei grandi evasori all'opinione pubblica esasperata dalla recessione e dai tagli al welfare.
Giusto pochi giorni fa, da Washington, al termine della riunione del G20 del 19 aprile scorso, i responsabili delle Finanze delle maggiori economie mondiali hanno vergato un appello a favore di quella che con un eufemismo viene definita cooperazione internazionale in campo tributario. Nota a margine: tra le firme in calce al documento c'era anche quella del ministro (uscente) dell'Economia Vittorio Grilli, pure lui titolare, almeno fino al 2004, di un conto nel centro offshore di Jersey secondo quanto ha documentato "Il Sole 24" ore in un'inchiesta pubblicata il 23 aprile.
Belle parole, certo, ma dopo tante chiacchiere i fatti stanno a zero, o quasi. Nel suo ultimo rapporto annuale (2012), l'Ocse segnala l'esistenza di qualcosa come 800 accordi bilaterali per lo scambio di informazioni fiscali tra autorità di Paesi diversi.
Alla fine, però, la montagna ha partorito il classico topolino. La rete delle intese tra Stati che sembra avvolgere l'intero pianeta ha fin qui prodotto scarsi risultati pratici. Gran parte degli accordi, infatti, fissa paletti a dir poco stretti per delimitare il percorso di un'eventuale collaborazione. A volte, per dire, le indagini fiscali devono rispettare il segreto professionale di avvocati e notai. Come dire: notizie con il contagocce o niente del tutto. In altri casi, invece, il trattato bilaterale prevede che nella richiesta di assistenza vadano specificati una lunga serie di dettagli sul presunto evasore e sui suoi depositi off shore. E così il paradiso fiscale può legittimamente rifiutarsi di collaborare lamentando la genericità delle richieste.
Negli ultimi anni molti Paesi a bassa tassazione (eufemismo) hanno affermato la loro volontà di cambiare rotta sbandierando nelle più diverse sedi internazionali il gran numero di accordi siglati con altri Stati. Solo che, a ben guardare, si scopre che le Tortughe del fisco preferiscono collaborare tra di loro. Con scarsa efficacia pratica, ovviamente. Serve a poco se, per esempio, le Bermuda garantiscono assistenza fiscale ad Aruba, Curacao o alla Malaysia, come prevedono i patti firmati negli anni scorsi. Allo stesso modo ha scarso rilievo la pletora di accordi raggiunti con paesi come Islanda, Finlandia o Groenlandia, da dove, notoriamente, non è che partano fiumi di denaro nero verso i Caraibi.
L'Italia, a quanto pare, si è mossa con decisione solo di recente. Il trattato per lo scambio di informazioni fiscali con un paradiso frequentatissimo come le Cayman Islands è stato siglato solo il 3 dicembre 2012. Sì, proprio le Cayman, le isolette finite giusto un mese prima al centro di un botta e risposta polemico tra Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi, i due sfidanti delle primarie Pd. La pietra del (presunto) scandalo era l'appoggio fornito a Renzi dal finanziere Davide Serra, che gestisce fondi d'investimento con base alle Cayman. L'anno scorso Roma ha raggiunto intese analoghe anche con Bermuda, Isole Cook, Gibilterra, Guernsey e Jersey. Prima del 2012, però, l'Italia stava a zero. In altre parole si è mosso il governo Monti, quello dei cosiddetti tecnici. Prima di loro, niente. Particolare importante: nessuno di questi trattati risulta al momento ratificato e in vigore. E in alcuni casi è trascorso più di un anno dalla firma.
Questo almeno è quanto emerge dalla documentazione depositata all'Ocse. Certo, prima del 2012 non mancano gli accordi contro la doppia imposizione, alcuni dei quali prevedono clausole per lo scambio di informazioni. Quasi tutte le intese di questo tipo, però, sono state stipulate da Roma con Paesi che non sono paradisi fiscali. Il trattato con la Svizzera risale addirittura al 1976 e secondo gli esperti dell'Ocse non risponde agli standard di trasparenza fissati dall'organizzazione internazionale.
Con San Marino, invece, dopo anni di tira e molla, il governo italiano ha dato via libera al nuovo protocollo per l'assistenza fiscale lo scorso 18 aprile. La Repubblica del Titano, dove si sono insediate migliaia di aziende a proprietà italiana, con tanto di accoglienti e attivissimi istituti di credito, resta una delle principali vie di fuga per i capitali nostrani. «Fine del segreto bancario», ha pronosticato più di un osservatore. Resta da vedere come andranno le cose alla prova dei fatti. Perché alla fine, quando il gioco si fa duro la diplomazia dei trattati può non bastare. Altri mezzi si dimostrano più efficaci per piegare la resistenza del mondo offshore. Come dimostra la cronaca recente della lunga controversia tra Stati Uniti e Svizzera.
Pur di mettere le mani sui miliardi di dollari esportati illegalmente all'estero dai propri contribuenti, il governo Usa era pronto ad azioni pesantissime contro gli interessi svizzeri in territorio americano. E infatti Washington ha ripetutamente minacciato di chiusura le filiali di Wall Street di grandi banche elvetiche come l'Ubs, arrivando addirittura ad arrestare, come forma estrema di pressione, il manager di un istituto di Zurigo.
Alla fine gli americani hanno raggiunto il loro scopo. Il 10 aprile scorso il governo svizzero ha infine accettato le dure condizioni previste dal Facta, un acronimo che sta per Foreign account tax compliance act. Questa legge varata nel 2010 obbliga gli istituti stranieri a comunicare al fisco di Washington la lista dei loro clienti americani. Dopo molte proteste contro la "diplomazia dei cow boy", Berna non ha potuto fare altro che accettare il diktat di Obama.
Gli svizzeri rischiano grosso. E non solo perché potrebbe diminuire di molto l'appeal delle loro banche tra i ricchi americani. C'è di peggio. Molto peggio. Perché adesso l'Unione europea pretende condizioni simili a quelle accordate dal governo elvetico agli Stati Uniti. A dire il vero, fin qui i Paesi Ue si sono mossi in ordine sparso. Gli inglesi hanno siglato un accordo con Berna che prevede un'imposta una tantum a carico dei cittadini britannici che hanno aperto conti non dichiarati negli istituti rossocrociati. La tassa varia a seconda dei casi tra il 19 e il 34 per cento del patrimonio in nero. Infine, a partire dall'entrata in vigore dell'accordo (inizio 2013) è previsto che il fisco svizzero trattenga un'imposta alla fonte sui redditi prodotti da questi patrimoni. Anche la Germania aveva siglato una convenzione analoga con Berna, ma il parlamento tedesco ha respinto l'intesa giudicata troppo favorevole per gli evasori. La bocciatura segna una vittoria politica per i socialdemocratici che fin dall'inizio si erano opposti all'intesa sponsorizzata da Angela Merkel. Bocciato l'accordo, la lotta all'evasione ha preso un'altra strada. Una scorciatoia: le autorità fiscali di due Laender, la Renania Palatinato (Magonza) e il Nord Reno Westfalia (Colonia), hanno comprato alcuni cd contenenti l'elenco di migliaia di evasori con i soldi a Zurigo. L'operazione potrebbe fruttare centinaia di milioni al fisco tedesco, che, a quanto pare, ha accettato al volo la preziosa documentazione offerta (si dice) da funzionari di banca infedeli.
Berlino, quindi, si muove. E Londra pure. L'Italia invece è ferma al palo. L'accordo con la Svizzera per tassare alla fonte i capitali italiani è stato dapprima boicottato da Tremonti. Poi, una volta caduto Berlusconi, Monti e i suoi ministri si sono mossi senza grande convinzione. Il tavolo della trattativa è ancora aperto, ma adesso tutto sembra più difficile. Da una parte, a Roma, la politica è in preda alle convulsioni da fine impero. Ma anche dall'altra parte della frontiera le cose stanno cambiando. Poche settimane fa le elezioni nel canton Ticino, vera cassaforte del denaro nero italiano, hanno visto il successo della Lega dei ticinesi, una versione ancora più radicale e xenofoba della Lega nord nostrana, con cui esibiscono rapporti di fratellanza.
I leghisti svizzeri sono diventati il primo partito grazie agli slogan contro i frontalieri delle vicine province di Varese e Como, che - dicono - rubano il lavoro ai ticinesi. Nel loro programma non c'è spazio per l'abolizione del segreto bancario, anzi, se possibile, vorrebbero rafforzarlo in diretta polemica con il governo centrale di Berna. Perché gli italiani, sostengono i leghisti svizzeri, sono ospiti graditi solo quando portano i soldi nelle banche. Quelle di Lugano, naturalmente. Sul nostro sito si possono consultare tutti i nomi degli italiani inclusi nel database di OffshoreLeaks sui paradisi fiscali che "l'Espresso" pubblica in esclusiva da quattro settimane.