E la notte m'accoglieva tra le sue inquite spire...
Lo so, un giorno qualcuno si prenderà cura d’analizzare nella mia scrittura il rapporto che ho con la morte. Quel che non so è ciò che scriverà, ciò che dirà. Tra parentesi: da dove nasce questa presunzione di credere che un giorno qualcuno si prenderà la briga di andare a scandagliare ciò che ho scritto? Giusta obiezione in base alla quale dovrei usare un cautelativo condizionale e scrivere “se un giorno qualcuno si prendesse cura, allora…”. Questa obiezione mi dà occasione di fare il punto su talune questioni che mi stanno a cuore. Per un verso dovrei provare vergogna a fare tali affermazioni: chi sei per presumere che un giorno qualcuno possa prendere in esame la tua opera scrittoria? Sei forse un poeta, uno scrittore o un filosofo affermato? Fatta eccezione per quei quattro o cinque visitatori che con costanza leggono ciò che scrivi, hai forse un pubblico così vasto, così sterminato tale da indurti a credere che la tua scrittura sia così interessante sino al punto di pensare che un giorno le tue poesiole o i tuoi “raccontini” saranno oggetto d’analisi?
Permettetemi di sfatare alcuni miti, soprattutto quello del “successo”. Nel mondo s’è affermata l’idea che soltanto chi ha “successo”, successo di pubblico intendo dire, può nutrire aspettative del genere. Se i tuoi romanzi si vendono come il pane, se il nome dell’autore è sulla bocca di tutti, allora si ha anche il diritto di vivere tali aspettative, altrimenti, se sei un perfetto sconosciuto, è meglio tacere, meglio non dire nulla, o tutt’al più meglio recitare la parte dell’artista incompreso, dell’artista che vive tempi troppo piccini non in grado d’apprezzare la tua grandezza. Personalmente, proverei fastidio a recitare una parte del genere, mi sentirei un po’ come quei partiti che quando perdono le elezioni danno colpa a un difetto di comunicazione; il nostro programma politico era troppo sofisticato per essere compreso dalla maggioranza degli elettori. Così: la mia arte è troppo complessa per essere compresa da tutti. La questione per me è molto più semplice: io sono perfettamente consapevole del valore delle cose che scrivo, e se finora non hanno conosciuto il successo di pubblico non è perché non sono compreso, ma semplicemente perché non ho trovato i canali giusti. Oggi gli scrittori (o i poeti) sono allevati nelle conventicole, nelle accademie, nei salotti letterari, nei laboratori di scrittura, nelle case editrici, dove hanno modo di sbrodolarsi l’un con l’altro, di scambiarsi reciproci complimenti, e dove fanno a gara a chi spara le lodi più sperticate. Ma anche quando un giorno riuscirò a trovare i canali giusti, non credo che diventerò un autore di successo. Allargherò, semplicemente, la mia nicchia, per cui se oggi sono cinque o sei i lettori fedeli, domani saranno, che so, cinque/seimila. Voglio dire, non è che quando qualcuno scrive deve per forza piacere a tutto il pubblico di lettori. Intendiamoci: non è che a me dispiaccia se i lettori fossero cinque o sei milioni, anzi, è che sono consapevole di non fare un “prodotto” adatto a soddisfare le esigenze di milioni di fruitori. Un po’ come accade al piccolo artigiano che lavora nella sua bottega: non può fabbricare oggetti su scala industriale. Certo, se il suo modello, il suo stile sarà un giorno ripreso su scala industriale il discorso cambia. Anche nel campo della narrativa le cose si presentano in questo modo. Tanti scrittori sono nati come piccoli artigiani i cui prodotti coprivano una domanda di nicchia. Poi però quando sono stati assorbiti nella grande produzione industriale, si sono trasformati in manager. Anche in questa trasformazione da artigiano a manager non c’è nulla di male. L’ho detto, ogni autore aspira a vedere allargato il suo mercato; cioè se un artigiano fa una bella sedia, mi sembra legittimo il suo desiderio di vederla in ogni casa. Il problema è che sa che per vedere la sua sedia in ogni casa, qualcosa deve cambiare: il materiale, ad esempio, con cui la sedia è fatta non può essere sempre il medesimo. Se il tuo modello di sedia devi proporlo su scala industriale non puoi continuare a fabbricarla con legno di ciliegio, ma devi usare la plastica o un altro materiale più economico. Insomma, uno non può continuare a credere di fare un prodotto di nicchia pensando di venderlo poi su scala industriale. Allo stesso tempo, posso fare un prodotto industriale e continuare a fare anche un prodotto di nicchia, ma devo essere consapevole che sto facendo due prodotti diversi. Voglio dire ci sono scrittori che scrivono tanto per un vasto pubblico che per un pubblico più ristretto. Le due attività non sono incompatibili. E non bisogna neanche credere che quando le cose che si scrivono per il vasto pubblico sono quelle facili, e quelle difficili vengono scritte per un pubblico ristretto (essoteriche/esoteriche).
Le cose non stanno esattamente in questo modo. Se io metto al centro della macchina narrativa determinati temi, li tratto in un determinato modo, li costruisco in un particolare modo. Insomma, potrei dire tutto dipende dal materiale d’uso, che tradotto in termini letterari significa: tutto dipende dallo stile. Uno stile accattivante, coinvolgente ha più possibilità di attrarre un numero maggiore di lettori, di quanto ne possa attrarre uno stile ieratico, severo, estremamente rigoroso, immaginifico, scarsamente referenziale. Il lettore vuole specchiarsi nella storia che legge, capire bene la trama, l’intreccio, la psicologia dei personaggi, il sistema di relazioni entro cui si muovono, vuole tempi storici ben scanditi, una cronologia degli eventi ben congegnata, vuole nel corso della lettura esercitare la sua intelligenza, anticipare le mosse dell’autore, e, soprattutto, vuole leggere in una lingua standardizzata, ed è poco propenso a riflettere sulle risonanze evocative di un termine, sugli effetti poetici provocati dall’accostamento di immagini suscitate e parole. Tutto questo si può anche renderlo con una struttura sintattica complessa, difficile, ma comunque affascinante, attraente, o con una struttura semplice, immediata, fronzolata, vivace, piena di umori, di tic, l’importante però è che siano rispettate quelle quattro o cinque regole di buona educazione sopra citate. Quindi, se nello stile mi piace cogliere ed evocare tali effetti, ascoltare la risonanza che la parola può suscitare nell’animo di chi legge, allora so che sto creando un testo di nicchia, perché so che la maggior parte dei lettori non è aduso a percepire in ciò che legge questi effetti evocativi. Lo stile dev’essere sottilmente liricizzato, la parola dev’essere altamente ricercata, la tessitura o l’ordito fragile, quasi trasparente o addirittura impercettibile. C’è una rinuncia volontaria alla presa in diretta, al linguaggio immediato, colloquiale, referenziale, ad ogni forma di narcisismo, di esibizionismo, ad ogni intenzione di esprimere una forma collettiva, a “uno stare insieme”, a tutti quei rituali che oggi pullulano nelle reti digitali, nei luoghi sacri degli incontri metropolitani. La follia letteraria a mio parere oggi consiste nello spingersi nei luoghi appartati, deserti, dove altrettanti personaggi appartati e solitari non parlano di sé ma del reale, della sua degradazione, della sua deriva, interrogandosi continuamente sul senso del reale, magari senza mai avere la presunzione di trovare le risposte ultime.
Magazine Storia e Filosofia
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