Spesso i titoli di esposizione di un libro sono delle evocazioni poetiche (volte) al sentimentale, al limite delle opere stesse e della loro realtà materiale, realtà che solo conta nel dominio dell’arte.
Ma qui il suo titolo : “La Forma dei Pensieri” designa precisamente quello che lei ha fatto.Tutta l’opera d’arte di valore affronta una impossibilità (un problema). Qui si tratta di fotografare i pensieri. Non si può fotografare quello che succede ma fotografare i pensieri andati – anche (quelli), che noi non possiamo vedere, quelli immateriali.Le parole “la forma dei pensieri” vengono qui prese alla lettera. Non vogliono dire niente. Questo perché non abbiamo ancora cominciato a dire qualche cosa. (Non siamo giunti) al momento in cui si giustifica l’espressione “questo non vuol dire niente” . Come quando noi rispondiamo a colui che ci interroga sul senso di un quadro illustrato, sulla capacità di gettarsi da un mondo in cui le cose si dicono verso un mondo dove le cose sono la’ (esistono). Certamente non ci si va mai.L’artista, lui, ci va. Ed è per questo che può incaricarsi di spiegare una frase assurda.Resta il fatto che una foto è fatta di forme materiali. C’è cosi necessariamente una trasposizione che va dallo spirituale al concreto. Come è possibile?Henri Facillan mi ha detto che tutto è forma, anche il pensiero. E’ vero. Un pensiero ha una struttura , un movimento. Noi possiamo rappresentarlo con degli schemi, con delle curve visibili ma che non sono (precisamente) più dei pensieri. E’ chiaro che ci siamo allontanati dal nostro proposito iniziale. Questa trasposizione non è altro che quella di un segno, come la lettura di una cifra che non ha un senso se vista al di fuori del codice a cui appartiene e che non ha altro che un rapporto arbitrario con quello che il codice denota. Niente è più lontano da un segno che una foto.E’ (esiste) il bisogno di dire che non si tratta di allegorie , che rappresenterebbero le idee di graziose dame? Proprio cosi si è fatto per molto tempo ma (adesso) non si fa più.La trasposizione qui non è altro che quella di un simbolo (cara a Nelson Goodman) che mette una cosa al posto di un’altra che la evoca (richiama) senza tuttavia esserlo. Ci si può cosi avvicinare ai limiti dell’arte poiché le corrispondenze tra le forme sono infinite e le macchie su un sassolino possono fare pensare a un cielo (dipinto su) tela. .Ma l’arte non è interamente simboli, e anche allora (anche se lo fosse) supererebbe la nostra definizione. Non è solamente l’insieme possibile di tutte le cose ,anche distanti, dal reale. C’è un’origine nello spirito.E’ qui che al di la del segno e del simbolo lo spirito ci fa ribattere sulla definizione di “equivalente”. L’equivalente non ha più nessuna somiglianza con quello di cui è l’ equivalente, ma tuttavia, gli corrisponde .La mia battaglia è sempre stata quella di affermare che la fotografia possedeva una ricchezza di materia e che, senza questa, non poteva essere un’arte. (Infatti) la riguarda, ne è il corpo del visibile. E’ una parte essenziale della fotografia. Giovanni Chiaramonte ci mostra (come) la sua ricerca si piazza all’estremità degli sforzi dei numerosi fotografi italiani in questo senso. Lei la spinge all'estremità va a ritornare al problema domandando alle forme di lasciar vedere lo spirito. Al di la di questo pensiero attraverso le forme , che definiscono la spiritualità dell’arte , lei vuole toccare tramite l’occhio il pensiero in se stesso. Attraverso il cammino dell’equivalente”. Io ignoro se questo è possibile. Io mi rifaccio al fatto che un pensiero è sempre pensiero di qualche cosa. “Il pensiero” è l’astrazione di una astrazione. Come può un’immagine arrivare sino a la?E’ certo che le sue immagini sanno evocare quello che evoca il profondo della parola “pensieri”. Lei ci tocca attraverso le sue luci che mostrano il fondo e le albe, attraversando lo spessore di una materia buia e che, di fatto, le esprime e le rivela.E’ bene , infatti noi ci conficchiamo nel più profondo della materia poeticamente, plasticamente, o scientificamente a tal punto da sentirci il più possibile vicini al pensiero in se stesso. Noi non possiamo realmente vederlo in faccia ma lo sentiamo vibrare al contatto con la rugosità della realtà.Lei va sino a dove è possibile arrivare nella sfida contenuta nel suo titolo. Il punto principale, finalmente, è l’essere giunti alla domanda : “che cosa è il pensiero?”. Martin Heidegger risponde: “Pensare veramente è pensare che noi non pensiamo ancora. Noi non possiamo parlare della bellezza ma possiamo solo parlare dei suoi pretesti.”Dalla mostra “Rumori”“La forma dei pensieri” Catania, maggio 2004presentazione di Carmelo Bongiorno
Nel linguaggio della Fotografia contemporanea la direzione dello sguardo va spostandosi sempre più verso una visione introspettiva del reale, tendendo ad una personale interpretazione dell’universo circostante piuttosto che ad una sua chiara rappresentazione. Del resto, già 150 anni fa, Julia Margaret Cameron agli albori della fotografia realizzava i suoi ritratti sfocando parzialmente i personaggi per conferire all’immagine maggior fascino, nell’intento (forse allora inconscio) di utilizzare la sua fotocamera come strumento d’espressione e non come mezzo di pura e distaccata trascrizione del visibile. E chi, ancora oggi, non volesse riconoscere alla Fotografia le sue evidenti e molteplici possibilità di interpretazione (che si utilizzi o meno la sfocato, il colore o il bianco nero) è solo chi ne nega e disconosce la storia e non possiede quell’apertura mentale indispensabile per accostarsi all’arte. Nel suo attento e ricco programma espositivo, i due autori che ci presenta la galleria Carta Bianca si collocano senza dubbio nella corrente della più “disinibita” fotografia contemporanea, quella corrente cioè che negli ultimi decenni vanta già nomi riconosciuti e che, superando tutti i presunti limiti di rappresentazione affibbiati da grigi “censori dell’immagine”, si pone come uno dei più liberi e puri linguaggi dell’anima. Mario Valenti e Angelo Zzaven, attraverso l’essenzialità e il rigore del bianco e nero, ci propongono oggi la loro ricerca esistenziale vissuta sul filo di un comune sentire, un legame che è chiara espressione della contemporaneità e delle percezioni che essa produce: pur nelle loro evidenti diversità i due autori sono infatti accomunati da una tattile sensazione di incertezza a cui porta inevitabilmente la vita quotidiana così come dalla forte volontà di rivolgere l’obiettivo verso se stessi in un’inevitabile introspezione che è il solo mezzo per comprendere il mistero. In questo senso, “Rumori”, il titolo della mostra, chiarisce oltremodo le intenzioni e la direzione della ricerca di Zzaven e Valenti: le loro immagini sono contaminate dai segnali di una contemporaneità che genera innumerevoli rumori di fondo, tracce che lasciano un’impronta sulla sensibilità e nello sguardo dei fotografi prodotte da tutto ciò che ci circonda, dai giornali ai monitor, dalla radio agli schermi televisivi, dalla strada a internet, per poi dissolversi e divenire fotografia. Angelo Zzaven sfoca totalmente la scena ripresa per dare forma ai suoi pensieri come egli stesso afferma nel titolo di una sua pubblicazione, astrae la realtà per trasformarla e farne un proprio territorio; luoghi, figure e particolari divengono composizioni di ombre e di luci, dense materie che ribaltano la dimensione del reale per divenire puri stati d’animo, sensazioni, brevi e fugaci percezioni che oltrepassano la materia. Mario Valenti allo stesso modo astrae i suoi soggetti, ma attraverso il mosso e lo sfocato, indaga sul chiarore abbacinante che investe soprattutto le figure umane, ne penetra lo sguardo per scrutarne l’anima, ne rende i tratti irriconoscibili: i luccichii negli occhi dei suoi ritratti rendono i visi maschere inquietanti dai contorni indefinibili, e scie di luce emergono dall’oscurità spiazzando l’osservatore sulla loro provenienza, tracce di qualcosa che forse è durato solo un attimo, brevi eventi sospesi nella mente dell’autore. Percorsi paralleli e lontanissimi quelli di Zzaven e Valenti, emulsioni dell’anima trasferite su carta fotografica.
Dalla mostra“La forma dei pensieri”2001Caltagirone, dicembre 2001 – Postfazione al libro di Giuseppe CondorelliL’uomo è sia una macchina per controllare il caos, sia un propagatore di disordine. Come ogni fenomeno caotico “sotto controllo relativo” oscilla incessantemente fra stati imprevedibili mentre il suo comportamento statistico generale rimane pressoché stabile, come l’acqua che bolle. (Maurice G. Dantec) L’incessante e proficuo impegno di ricerca, che ne ha contrassegnato gli anni della formazione, ha condotto Angelo Zzaven da uno scatto mediato - frutto dello studio minuzioso delle scuole fotografiche, della lezione dei grandi maestri e di sapiente mescolanza fra intuito e razionalità - ad una nuova e profondissima stagione del suo operare e, quindi, ad una fotografia la cui impronta lascia suggerire una vera e propria metafisica dello scatto. Il “pensare per immagini” del Nostro Autore è ormai definitivamente lontano dall’oggettivo e concreto interagire con la realtà che ci sta davanti agli occhi. E’, piuttosto, un pensiero fotografico dilatato verso un limen della coscienza, soffuso ed apparentemente discreto, ancorché carico dei reperti interiori di chi ha rivolto l’obiettivo dentro. “Un altro modo - conferma lo stesso Zzaven - di guardarsi allo specchio”. Quello stesso specchio “dotato di memoria” che è la fotografia secondo la definizione di Oliver W. Holmes. Nelle immagini de “La forma dei pensieri” si liberano, infatti, fortissime componenti autoreferenziali. Sono rappresentazioni astratte e suggestive, prossime alla composizione pittorica, oli estratti dalla memoria personale. Si riportano in questo libro l’inchiostro lontano e sbiadito di una lettera, le volute barocche di un’inferriata, quelle austere di un balcone, l’anta appena accostata dalla quale il chiarore di un pianterreno muore in una polvere diffusa (tentativi di fuga? infantile paura dell'oltre? percezione della fine?). Ed ancora, il lucore di soglie, radure, ombrose scalinate sbrecciate, accecanti usci, cieli imprecisi (tragitto casa sepolcro?) e le panchine affondate nella sabbia di un tempo dalla quale le forme dei pensieri affiorano con la densità lieve e corposa, profonda ed imprecisa, dei ricordi e dei flashback e con l’ossessiva ripetizione di frattali pulsanti di vita. E sono sempre i flussi di fiumi immaginari, i segni di una topografia cerebrale incerta ed al contempo dettagliata, i cui incessanti mutamenti sono degni di Moebius. Non c’è, però, nelle fotografie di Zzaven nessuna oltranza nostalgica, nessuna celebrazione del rimpianto. “La forma dei pensieri” sfugge alla semplicistica emozione della compassione se non altro perché la referenzialità di queste immagini è già stata percorsa e fruita, sedimentata dalle spirali degli eventi e stratificata da incisioni, graffi, bruciature, sfregi, sorta di manipolazioni fisiche e inconsce allo stesso tempo, che trasfigurano la singola fotografia avvicinandola ad una luminescente emanazione sinaptica. Protagonista assoluta d’ogni fotogramma rimane la luce che tenta di ordinare il caos con un movimento d’onda oscillante tra istinto e ragione. E se l'apparentemente laboriosa decifrazione può confondere l’occhio, ad un guardare più attento, “La forma dei pensieri” di Zzaven – pur costruita con sequenze nelle quali gli individui sono praticamente distanti, sottratti ad ogni fisicità, quasi assenti – si rivela invece una sorta d’album delle reminiscenze collettive, proprio perché indeterminate sono le nostre reminiscenze, ugualmente vago il tentativo di riappropriarcene se non nei contorni incerti della visione. Ecco perché Zzaven sceglie l'eccesso tormentato dell’informe e dell'evanescente come se le sue immagini fossero sempre sul punto di dileguarsi. L’Autore suggerisce, allora, ellissi di desiderio senza nome, i luoghi e gli oggetti materiali ed immateriali trasfigurati di un tempo: tagli scabri ed essenziali delle stagioni di un individuo che continua a sperimentare la meraviglia e il dolore di essere nel mondo.