"Fermai improvvisamente la corsa, sopraffatto dal nostro stesso respiro".
Vittorio si racconta per dimenticare un dolore che se ne deve stare lì, buono buono, assopito e silenzioso, come stipato nelle viscere. Perché il dolore non è uguale per tutti, e non si racconta a nessuno quel senso di colpa logorante, continuo e costante che resta addosso al superstite, aggrappato con le unghie a condividere tratti di strada.
Vittorio è un avvocato, un uomo piacente di quarant’anni, figura che trafuga momenti di effimero piacere alla propria vita frenetica e nervosa, contrappuntata da una memoria frantumata in una miriade di ricordi. Ci sono uomini che possono chiudere gli occhi davanti alle sfide che potrebbero restituirli intatti e grandi o che potrebbero altrimenti destinarli alla disperazione, come se ciò dipendesse da loro. E poi ci sono altri che decidono di fuggire via, di mollare tutto e tutti, di ricominciare da capo, ma... dimenticare per andare avanti, ha un senso? Inseguire il mare nell'oblio della notte - quel groviglio di sentimenti che "aveva trasformato le vie abitate in fiumi adirati e vogliosi di riversarsi nelle gravine in cerca di sfoghi" -, tra un silenzio trapuntato dalle ore e un grido strappato a quel ricordo che non è scomparso, ma è stato solo scaraventato in uno scantinato, là in fondo alla mente di Vittorio, alla fine non è che un vivere inchiodato a delle certezze che potrebbero crollare da un istante all’altro.
Inetto personaggio di sveviana corrispondenza, Vittorio è il protagonista di La corsa, esordio letterario di Gaia Silvestri, per i tipi di Albatros. Avvocato di origini lametine che attualmente vive a Massafra, comune della provincia di Taranto, l’autrice in questo suo debutto cesella episodi come fossero istantanee di straniamento in una scorpacciata di piacevoli capogiri narrativi. Giovane disilluso alle prese con l’ambiguità dell’esistenza, il protagonista del romanzo vuole fuggire nel modo più cinico, plateale e irriverente possibile - o forse un po’ tutte queste cose assieme - da quel senso di vuoto che ti toglie il respiro: "Il vuoto riempì l’aria togliendo spazio alle mie parole", confessa sulla pagina.
Riaffiorando le immagini di un mostro che in realtà non aveva mai trovato sepoltura, Vittorio non può più mantenersi in equilibrio sul filo delle relazioni che intercorrono entro le mura della sua piccola società medio-borghese euforicamente radical chic. Ma proprio quando "lo stress degli ultimi anni stava bussando chiedendo il permesso di esplodere", e proprio nel momento in cui sente ormai crollare addosso l'emozione di conoscere l'altro e divampare nelle vene la rabbia di non poter ravvisare l’oblio che incateni il passato, non più disincantato e distaccato egli sperimenta ciò che, con elegiaco e sereno lirismo, Friedrich Hölderlin recuperava tra i meccanismi alienanti della civiltà: “dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva”, cantava il poeta. Recuperare infatti un'esistenza che gli appariva tragica e insieme comica, ora si rende possibile a Vittorio grazie alla sola presenza di una donna, Vera, una donna vera, ancora di più, una verità; è infatti grazie a questa rivelazione che, con sacrificio liberatorio, l’avvocato può finalmente osservare "tutta la polvere depositata sul cuore negli anni, sollevarsi in un vortice" e adagiarsi sulle sue labbra e le sue parole di cinico impenitente sempre alla ricerca inconscia del piacere.
Non dimenticare, ma racconta, sembra sussurrargli Vera, "nel rumore della pioggia" di flashback che un’ipnotica rielaborazione di sensi di colpa lascia riemergere dalle acque sotterranee dell’inconscio – "La sofferenza, questa è l'unica causa della consapevolezza", scriveva Dostoevskij in Memorie del sottosuolo –, mentre Vittorio, a disagio con se stesso quanto con la società, prova ad allontanarsi da una vita relazionale inconsistente. E sfogliando il racconto sembra quasi di vederlo restituire la sua figura di uomo alla sorgente primordiale dell’amore ("le risposi così mentre accarezzavo il suo volto di pioggia", dice un momento prima del riscatto); l’amore che è un sentimento sempre immobile nel suo essere insuperabile e sempre uguale a se stesso, di contro all’immagine della frenesia mutevole della corsa del titolo, scampolo di nevrosi post-moderna.
Sebbene nel romanzo non si venga coinvolti emotivamente in intrighi o in particolari colpi di scena, non di meno un alternarsi continuo di tempi narrativi tiene viva l’attenzione, facendo emergere periodi di piacevole sorpresa per intensità e costruzione. Accompagnare narrativamente il protagonista in un viaggio a ritroso che lo impegnerà a districarsi tra le memorie del passato, immerso nell’enigmatica complessità delle relazioni umane e sociali, comporta stilisticamente un impegno analitico interessante. Tante volte, infatti, sembra quasi l’autrice voglia chiedersi come avrebbe potuto essere diversa la vita del protagonista se solo il suo migliore amico, Mirko, avesse continuato a far parte del suo mondo. Chi avrebbe potuto affermare con sicurezza, ad esempio, se Vittorio si sarebbe rivelato allo stesso modo uno "stronzo anaffettivo di merda", tale e quale emerge dalle prime pagine del libro?
In balia di una libertà eccessiva, l’avvocato non affronta il dolore, lo mette da parte, quasi a voler "allungare la scaletta sul post-it" di un avvenire di difficile interpretazione. Secondo le direttive di un sentimento di continua inquietudine, egli decide di immolare la propria carne nella cloaca di un collettivo vuoto morale, nell’attesa che un sussulto di verità - nell’affrontare il dolore e nella scoperta dell’amore - restituisca il senso ad una vita spalmata sull’inutile tentativo di eluderne i ricordi.
L’autrice, forse per ribadire l’approccio inizialmente ferino che il protagonista sostiene relazionandosi con le donne, sottolinea anche nel linguaggio una certa insofferenza verso forme di sentimentalismo e pudiche congetture: "Arrivai al solito posto, in una specie di affittacamere, la scopai senza ritegno e me ne andai, così", ricorda quasi indispettito da cotanta generosità di talamo. Oppure come non notare l’insensibilità mascolina (non dico maschile, che è di tutt’altro tono) con cui descrive un momento dell’incontro con Silvia: "Mi ha assalito con racconti e considerazioni riprovevoli sulla sua vita sentimentale"; l’episodio poi continua con Vittorio che la lascia da sola a contemplare il suo piatto di sushi. O ancora, quale cafone d’uomo avrebbe avuto il coraggio, anche davanti alla più impertinente delle donne, di sbottare di colpo in un: "la verità è che nessuno ti ha mai sbattuto abbastanza"?
Premesso di preferire di gran lunga che una scrittrice adotti come protagonista del suo lavoro chi, per mentalità e senso pratico, risulti più vicino al suo essere naturalmente donna, mi spiace constatare che nel suo libro la Silvestri abbia voluto, di sicuro contro la sua volontà, alimentare lo stereotipo oppressivo che vuole l’uomo arrogante prevaricatore col pensiero fisso “lì”, mentre le donne, eteree, disquisiscono su questioni ben più spirituali. Comunque certo delle buone intenzioni dell’autrice, immagino che questa scelta sia stata dettata dal desiderio di sottolineare maggiormente l’aspetto nichilista di un certo stile di vita, tratto che altrimenti non sarebbe stato altrettanto semplice illustrare. E infatti su altre pagine lo sguardo dell’autrice si sposta da una figura femminile all’altra, da una vita all’altra, regalandoci ritratti splendidi di donna: Silva Mistrani, ad esempio, "si muoveva con morbidezza e le parole le accarezzavano le labbra senza stonature", mentre di Vera non si riusciva "a distinguere la pupilla dall’iride, un’unica biglia nera spalancata e assetata al riparo da quelle interminabili ciglia". E di Ilaria, questa donna-apparizione che in un attimo di sfuggente melanconia quasi riesce a disinnescare le vertigini del non-sense del locale Baraonda (metafora di una vita disordinata?) e del rum, Vittorio sospirando ricorda: "Prima di scomparire, mi soffiò un bacio con la mano che mi entrò dalle orecchie e respirò nella testa".
Così leggiamo, seguendo una scrittura limpida, fluida, essenziale e senza fronzoli, e ci ritroviamo quasi a sospettare in quale modo la vita possa adagiarsi sulla letteratura, e come quest’ultima ti rinvii all’idea che il passato si possa raccontare nei lineamenti dei suoi personaggi: "Stendevo la pelle con le dita, ma appena lasciavo riprendeva il suo posto assegnato dal tempo", è il momento in cui Vittorio si osserva nella percezione inconsistente di quella che è la sua esistenza superficiale, in quanto banale nella sua essenzialità materiale, e in quanto riflessa sulla superficie di uno specchio fin troppo conforme alla sua apparenza. E quando ancora confessa "Non so dire quanto, ma quando finii mi sentii come il vapore che avevo lasciato in bagno", non dà prova, Vittorio, di un suo intangibile modus vivendi per cui ogni tentativo di ricomporre il suo essere si schianta (sì, proprio come in quel maledettissimo incidente) contro quell’unico e importante ricordo? Forse l’unica verità di una vita di volta in volta costruita su fragili totem, è lo scherzo bizzarro di una colpa di cui il protagonista ingiustamente si adombra.
Questo romanzo è una storia di relazioni tra le parti di sé e tra le persone; la trama, i temi trattati, le emozioni dei personaggi, sono tutti fremiti di vita nella necessità di mettere dei punti fermi allo strepitio furioso del tempo e dello spazio. Perché Vera te la ritrovi lì, "attorcigliata nelle lenzuola amaranto con le labbra schiuse e i capelli felici di attraversarle il corpo", e non come sfumatura nell’incantesimo di un magico incrocio di parole; è viva, almeno quanto lo è Mirko nel ricordo. E Vera è anche netta trasposizione di Vittorio, perché Gaia Silvestri li unisce entrambi in una simbiosi annunciata: "Mi venne da piangere di nuovo e la baciai per trasmettere la mia anima", lascia dire l’autrice ad un Vittorio inerme davanti all’evidenza di un Vero amore.
Un racconto di questo genere pertanto consideriamolo pure carnale, in quanto vi scorre tra le righe qualcosa che non è subito spirito, perché prima attraversa la psiche, fino a spingersi fin nei meandri del dolore e della memoria.
E niente potrà mai cancellare l’inchiostro indelebile di un ricordo.
Troppo solenne? Chiedere pure della pioggia.
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