C’era una volta in un noto villaggio africano, prospiciente al grande oceano,dove birra di sorgo e vino di palma scorrevano a fiumi, una gatta un po’ vecchiotta, che non aveva perso l’abitudine di corteggiare tutti i gatti di passaggio nella zona, perché ripeteva a se stessa,dal momento che nessuno ormai dei vicini stava più assolutamente ad ascoltarla, di sentirsi giovane e arzilla .
E lei, come non è difficile immaginare, si era prefissa perciò, tutte le volte che le capitava l’occasione,di smentirli ampiamente.
Un giorno, per puro caso, passò dalle sue parti un bel gattone bulimico,tutto ciccia, che non disdegnava affatto crocchette tenere e saporose di cui difficilmente, in tempi d’abbondanza,era solito privarsi.
Solo che adesso le “cose” al “buongustaio” stavano andando male e perciò era stato costretto a fare fagotto in cerca di fortuna.
Lei, la “nostra”, lo notò subito (era uno straniero) e non perse l’occasione di "attaccare bottone" con lui .
Quegli ci stette, all’inizio sopratutto per celia. Poi non sapendo dove trascorrere la notte, che ormai s’approssimava rapida, accettò d’essere ospite della sua cuccia.
E la notte, tra fusa e leccatine e arditi mugolii, passò per intero abbastanza piacevolmente.
Al mattino il gattone, che voleva essere riconoscente alla sua ospite,anche perché di suo era generoso, usciva presto a caccia di prelibatezze e ne portava, nel rifugio, sempre in abbondanza.
Alcune erano per davvero delle preziose squisitezze, quasi introvabili.
Ma non chiedetemi come facesse a trovarle.
Fatto sta che non tornava mai a “zampe” vuote.
La nostra gatta accumulava in dispensa il “tesoretto” e, intanto, passava il tempo a leccarsi il pelo e a rimirarsi nel suo specchio.
Uno specchio però che, con lei, temendone le assurde sfuriate, era sempre bugiardello.
Parecchi giorni trascorsero così.
Lui a caccia e lei che metteva al sicuro le provviste.
Per i giorni difficili,la furbona faceva credere a lui.
Ma, una sera, mentre consumavano il pasto, i due,tra una battuta spiritosa e una moina dietro l’altra, bevvero davvero un po’ troppa birra di sorgo.
Anzi ne bevvero così tanta, mista a vino di palma, da ritrovarsi improvvisamente a non capirci più niente.
In compenso, tuttavia, erano allegri e tanto fuori di sé da riuscire a scambiare quelle che si dicono, appunto, le famose “lucciole per lanterne”.
Il gattone, infatti, molto imprudente cominciò a straparlare e fece capire alla “nostra” gatta l’autentica motivazione della sua permanenza.
L’altra rimase sulle prime un po’ basita e poi, incontenibile, diede sfogo a tutta la sua collera.
E cacciò , non senza violenza, l’ospite fuori della cuccia a “zampate”, aggiungendo con veemenza di non farsi mai più rivedere da quei paraggi.
Il gattone si ritrovò così di nuovo sulla strada, andati a rotoli troppo in fretta i suoi castelli in aria, e dovette rassegnarsi ad intraprendere il cammino.
Un cammino senza meta.
Quello stesso che aveva intrapreso giorni prima.
Intanto la “nostra” vecchia gatta non mollò nulla indietro al suo ospite di ciò che aveva ben custodito in dispensa.
Semmai, ragionò tra sé e sé, appena non fu più alticcia e quindi sobria, che tutto quel ben di Dio sarebbe servito a lei e/o a chi per lei, dopo di lei.
Tutto sommato si diceva, tolto qualche piccolo fastidio, come quando il gattone si distraeva dietro le altre gattine del villaggio, che erano più giovani di lei, e lei diveniva livida di gelosia, ci aveva proprio guadagnato e del suo operato poteva, indubbiamente, andarne fiera.
Niente di più opportuno in tempi di magra.
Del gattone gabbato, ovviamente, non si seppe in giro più nulla.
E un vecchio saggio, che invece conobbe la storia da chi l'aveva ascoltata ancora prima, aggiunse di suo, mentre la raccontava ai nipoti : “Alla gatta che lecca la cenere (perché altro proprio non può di più e di diverso) non le affidare mai la tua farina”.
Marianna Micheluzzi (Ukundimana)