La gatta sul tetto che scotta

Creato il 26 gennaio 2015 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

La gatta sul tetto che scotta nel 1954 valse a Tennessee Williams il secondo premio Pulitzer dopo quello ricevuto per Un tram chiamato desiderio. Un premio importante, pesante, che la dice lunga sulla complessità e la profondità di un testo teatrale che indaga l’infelicità di una coppia e l’ipocrisia di una famiglia.

Una pièce quindi molto impegnata e impegnativa per il debutto teatrale assoluto di Vittoria Puccini, diretta da Arturo Cirillo e affiancata da Vinicio Marchioni. Un trio, regista e attori protagonisti, che pare però privo del physique du rôle richiesto dal testo e dai personaggi. Vittoria Puccini, con voce rauca tra attrice âgée e gatta fioca, ci si mette d’impegno per fare il meglio che può. Questo le va riconosciuto. E nella prima parte, in un’atmosfera che ricorda la scena in camera da letto di Eyes Wide Shut di Kubrick, a tu per tu con un monologo che a più riprese diverte il pubblico, pare quasi convincere. Ma è l’ombra di una tigre per una timida micetta sul palco che scotta quando irrompono gli altri della compagnia. Il livello si alza, si parifica, e lei rimane sotto, parzialmente schiacciata.

Inaspettatamente non fa meglio Vinicio Marchioni, il quale resta impostato dall’inizio alla fine dietro una voce forte e chiara, ingessato come quella gamba rotta che Brick è costretto a trascinarsi dietro. Rimane freddo come il personaggio che lo ha reso famoso nella serie tv Romanzo criminale di Stefano Sollima. È ubriaco, ma non troppo, mai a tal punto da lasciarsi andare ad una recitazione più sentita e sofferta. Toni impostati e frenati che salgono d’improvviso con l’entrata in scena dei bravi Paolo Musio e Franca Penone, che alzano sì il livello della recitazione, ma anche l’enfasi melodrammatica urlata e modulata in volumi mucciniani. Insomma, la Puccini non è abbastanza Maggie, Marchioni non è abbastanza Brick. Gli altri fanno solo il proprio mestiere d’attori.

Sottotono anche la regia di Cirillo, che si limita ad un giocattolo telecomandato, tenero e horror allo stesso tempo, che attraversa la scena all’apertura del sipario e ad un muro a scorrimento che si apre e si chiude, come le mura di un tempio borghese, su un verdissimo e rigoglioso giardino, unica valvola di sfogo di un’ambientazione algida e claustrofobica.

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