La gatta sul tetto che scotta nel 1954 valse a Tennessee Williams il secondo premio Pulitzer dopo quello ricevuto per Un tram chiamato desiderio. Un premio importante, pesante, che la dice lunga sulla complessità e la profondità di un testo teatrale che indaga l’infelicità di una coppia e l’ipocrisia di una famiglia.
Inaspettatamente non fa meglio Vinicio Marchioni, il quale resta impostato dall’inizio alla fine dietro una voce forte e chiara, ingessato come quella gamba rotta che Brick è costretto a trascinarsi dietro. Rimane freddo come il personaggio che lo ha reso famoso nella serie tv Romanzo criminale di Stefano Sollima. È ubriaco, ma non troppo, mai a tal punto da lasciarsi andare ad una recitazione più sentita e sofferta. Toni impostati e frenati che salgono d’improvviso con l’entrata in scena dei bravi Paolo Musio e Franca Penone, che alzano sì il livello della recitazione, ma anche l’enfasi melodrammatica urlata e modulata in volumi mucciniani. Insomma, la Puccini non è abbastanza Maggie, Marchioni non è abbastanza Brick. Gli altri fanno solo il proprio mestiere d’attori.
Sottotono anche la regia di Cirillo, che si limita ad un giocattolo telecomandato, tenero e horror allo stesso tempo, che attraversa la scena all’apertura del sipario e ad un muro a scorrimento che si apre e si chiude, come le mura di un tempio borghese, su un verdissimo e rigoglioso giardino, unica valvola di sfogo di un’ambientazione algida e claustrofobica.
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