La giornata dedicata alla commemorazione dei defunti in molti paesi, nel mio per esempio, ha offerto l’occasione per ricordare anche i caduti di tutte le guerre con un momento di preghiera e l’omaggio alla lapide che reca i nomi dei soldati, nomi lontani nel tempo, ma così simili a quelli di molti concittadini (nei paesi piccoli, si sa, il numero delle famiglie originarie è molto limitato e i nomi di battesimo tendono a ripetersi con regolarità).
Sulla lapide le foto sono antiche e poco leggibili, ma le date di nascita ci raccontano di tante giovani vite stroncate sui campi di battaglia, nelle trincee, ci raccontano di una generazione decimata, di tante storie, di tante esistenze che non hanno potuto seguire il loro corso naturale, di tante occasioni perdute delle quali non possiamo neppure renderci conto.
Mentre la tromba suona le note un po’ struggenti del “silenzio” mi ritrovo a pensare ad una anziana signora che ho conosciuto quando ero una ragazzina, una donna sempre vestita di nero con un sorriso sempre un po’ spento, offuscato da una tristezza che le saliva da dentro, mia madre mi aveva raccontato che aveva perso l’unico figlio nella Grande Guerra, da qualche parte sul Carso, e nei suoi occhi che accarezzavano i nostri visi di bambini, come se fossimo i nipoti che non avrebbe mai conosciuto, c’era tutto lo smarrimento di una madre che ha perso il figlio, la perdita più ingiusta e innaturale per un essere umano.
Il figlio, del quale non riusciva neppure a pronunciare il nome senza provare un indicibile strazio, apparteneva a quella generazione bruciata dalla follia della guerra e per tutta la sua vita, che fu lunghissima, continuò a convivere con un dolore sordo e oscuro, senza rimedio, senza rassegnazione.
Probabilmente i suoi occhi mi hanno insegnato ad amare la pace.