La geopolitica nell’era dello Shale Gas

Creato il 12 novembre 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Annalisa Boccalon

Il 16 ottobre ricorreva il quarantesimo anniversario dall’embargo petrolifero che i Paesi OPEC decretarono contro gli Stati Uniti, in seguito alla guerra dello Yom Kippur; l’embargo non solo fece quadruplicare il costo del petrolio, ma mise completamente a nudo la dipendenza energetica dell’Occidente dalle importazioni del perennemente instabile Medio Oriente. In quella circostanza, più che mai, i Paesi occidentali sentirono l’esigenza di diversificare le fonti di approvvigionamento energetico, per non rischiare di restar preda dei petrodollari mediorientali. Oggi, i percorsi individuati dai principali importatori di idrocarburi sembrano delineare nuovi scenari geostrategici e geopolitici.

L’età dell’oro del gas - Questi nuovi scenari sembrano profilarsi soprattutto in seguito alla (rin)corsa alle fonti di gas non convenzionale, a cominciare dal gas di scisto, o shale gas. Come noto, il gas di scisto viene estratto da una roccia a bassa permeabilità che, sottoposta ad un processo di fratturazione idraulica (fracking), sprigiona ingenti quantità di gas metano che si nascondono al suo interno. Difficile quantificare l’ammontare di gas di scisto presente sul Pianeta, al punto che nemmeno l’International Energy Agency (IEA) è riuscita sinora a farne una stima certa; già nel 2011, la IEA definì l’epoca attuale l’”età dell’oro del gas”. Tra i Paesi maggiormente ricchi di riserve di shale gas figurano la Cina, considerata il primo Paese al mondo per riserve di gas di scisto, gli USA e il Canada, l’UE, dove è concentrato il 10% delle riserve mondiali di gas di scisto, e la Russia, oltre al Brasile e all’Australia. Quella che ormai è definita la “shale gas revolution” è partita dagli USA tra il 2010 e il 2011. Appena nel 2005, gli USA figuravano come importatori netti di gas, mentre oggi viene stimato che entro il 2020 raggiungeranno una condizione di piena autosufficienza energetica, che consentirà loro di diventare esportatori. La rivoluzione dello shale gas sta alla base della ripresa economica americana, ma le implicazioni di questa nuova frontiera dell’energia vanno ben al di là delle semplici implicazioni economiche.

La Russia e la shale gas revolution - Un caso lampante è quello russo: lo sviluppo del giacimento di Shtokman, nel Mare di Barents, per il quale Gazprom aveva individuato in Total e StatOil i partner stranieri, con un investimento da 30 miliardi di dollari intrapreso nel 2007, è stato congelato nel 2010, a causa del sopraggiunto disinteresse del Nord America per il gas convenzionale estratto a Shtokman. La Russia, plausibilmente, guarderà ora verso altri mercati, considerando che gli USA avranno sempre meno bisogno delle importazioni russe. I primi mercati verso i quali Mosca potrebbe puntare saranno quelli asiatici: la Cina, in particolare, è altamente appetibile per Gazprom.

A spianare la strada verso Pechino ci pensano anche recenti disposizioni legislative introdotte in Russia, che impongono l’apertura alla concorrenza dell’esportazione del GNL, settore in cui Gazprom ha detenuto sinora un monopolio assoluto. Dal 1° gennaio 2014, Gazprom affronterà la concorrenza dei competitors nazionali Novatek e Rosneft, come affermato nelle settimane scorse dal Ministro dell’Energia russo, Alexander Novak. Le lusinghe di Gazprom nei confronti di una delle maggiori compagnie petrolifere cinesi, la China National Petroleum Company (CNPC), seppur non nuove, devono portare a qualcosa di concreto entro la fine dell’anno se Gazprom non vuole perdere l’occasione delle ultime settimane di monopolio assoluto nel settore. Ma Pechino ha reale interesse a cedere alle lusinghe russe? La CNPC ha già annunciato nelle settimane scorse di avere intenzione innanzitutto di aumentare del 7% le importazioni di gas dall’Asia Centrale.

Più in generale, la strategia energetica cinese opera già da una decina d’anni con straordinario attivismo nelle Repubbliche Centro-asiatiche, in particolare in Turkmenistan, come affermato anche nel XII Piano Quinquennale 2011-2015. Pechino, dunque, si è sinora ben guardata dallo stringere accordi energetici con Mosca. Quest’ultima, tuttavia, non resterà a guardare mentre i suoi clienti internazionali inseguono nuove opzioni energetiche: anche Mosca ha intrapreso attività di esplorazione per i gas non convenzionali onshore sul proprio territorio.

Riserve Shale Gas in Cina – Fonte: China Ministry of Land and Resources

Tuttavia, l’estrazione del gas di scisto qui si è resa più complicata rispetto agli USA, principalmente a causa della particolare condizione idrogeologica del territorio. Ad oggi, la maggior parte delle zone in cui sono in corso attività di ricerca ed esplorazione sono ad alto rischio sismico e a questo si deve aggiungere il fatto che le riserve di shale gas cinese sono situate ad un’elevata profondità nel terreno. I già noti effetti collaterali dei processi di estrazione del gas di scisto rischiano di esser ancora più negativi in Cina che in altre parti del mondo, se si considera che il fracking richiede enormi quantità di acqua per avere successo, e sembra avere come principale conseguenza l’inquinamento delle falde acquifere. In Cina, le risorse idriche sono scarse e la disponibilità pro-capite di acqua è pari a meno di un terzo della media mondiale, con una distribuzione non uniforme sul territorio. Ad oggi non esistono tecniche di estrazione sufficientemente avanzate per ovviare a questi aspetti altamente inquinanti e pericolosi, anche sul piano della salute.

L’Europa non partecipa alla corsa alle risorse - Sono proprio le ripercussioni sull’ambiente, sul paesaggio e sulla salute pubblica ad avere frenato molti Stati membri dell’UE nella corsa al gas di scisto. In Francia (secondo Paese in Europa per riserve di scisto stimate) e in Bulgaria sono state vietate le attività di estrazione, mentre in Romania le attività estrattive sono state interrotte nei giorni scorsi in seguito alle sempre più insistenti proteste di locali movimenti anti-fracking.

Per contro, la Polonia, primo Paese in Europa per riserve di gas di scisto, sta ampiamente facendo ricorso all’estrazione di shale gas, non senza scontrarsi con radicati movimenti di protesta popolare. Varsavia, tuttavia, preme per implementare l’opzione di gas non convenzionale nel mix energetico nazionale, al fine di potersi svincolare dalla dipendenza dalla Russia, evento atteso in Polonia già da molti decenni. Lo stesso vale per l’Ucraina, terzo Paese europeo per quantità di scisto, che, assieme alla Polonia, fa parte della Global Shale Gas Initiative, promossa dagli Stati Uniti per fornire il know how necessario attraverso le proprie compagnie energetiche (il know how sviluppato Oltreoceano è estremamente attraente sia per i partner europei, che per quelli asiatici, d’altronde). Al contempo, Germania e Regno Unito stanno valutando la possibilità di disciplinare con scrupolosità le attività di fracking per i colossi energetici operanti sul loro territorio.

L’approccio degli Stati dell’UE resta, dunque, diversificato, essendo le scelte relative all’energy mix nazionale una questione interna ai singoli Stati che non di meno dipende e s’intreccia con le diverse strategie geopolitiche. Nonostante ciò, lo scorso 21 ottobre la Commissione Europea ha annunciato che verrà adottato entro fine 2013 o, al più tardi, nel gennaio 2014 un “corposo pacchetto legislativo”, che probabilmente assumerà la forma di una direttiva sui gas non convenzionali cui dovranno attenersi le compagnie energetiche interessate dalle attività di fracking sul territorio europeo. Ma, sebbene l’Amministratore delegato di ENI, Paolo Scaroni, lamenti il fatto che in Europa la ripresa economica si prevede sempre più ardua anche causa degli alti costi dell’energia, tre volte più elevati rispetto a quelli dei supercompetitivi USA, non tutto sembra essere perduto.

Dove verrà indirizzato il gas naturale proveniente dal Qatar, primo esportatore mondiale di GNL, di cui gli Stati Uniti non avranno più così bisogno? Potrebbe dirigersi verso nuovi lidi, come l’Europa appunto, consentendo così a quest’ultima di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento, ovvero di ridurre la propria dipendenza dalla Russia, cosa che Bruxelles ha cercato di fare ripetutamente in passato. In altri termini, la progressiva emancipazione energetica degli Stati Uniti potrebbe condurre ad una revisione degli equilibri geopolitici mondiali: le risorse energetiche che si libereranno da una zona del pianeta potranno essere indirizzate verso un’altra.

Le conseguenze sul Medio Oriente - Di fronte a questo scacchiere geopolitico in rapido mutamento, sorge una questione di primaria importanza: ad una progressiva indipendenza energetica degli USA dal Medio Oriente potrebbe corrispondere un disimpegno politico-diplomatico dalla regione. C’è da chiedersi, dunque, se la politica mediorientale di Washington prenderà un nuovo corso – come pare stia già avvenendo in relazione non solo al pivot asiatico – al cambiare del mix energetico nazionale. Senza sforzi di fantasia, si può ravvisare una ridefinizione degli impegni americani in Medio Oriente. Il secondo mandato Obama, a shale gas revolution già avviata, è coinciso con una politica mediorientale più proattiva, rispetto al primo mandato, almeno per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese. La shuttle diplomacy di John Kerry, che ha timidamente condotto alla ripresa dei negoziati tra l’Autorità palestinese e lo Stato d’Israele a fine luglio, è la manifestazione più lampante di questo maggior dinamismo.

Ciò che sembra consolidato è che i Paesi esportatori di petrolio del Medio Oriente perdono, con la shale gas revolution, un’importante arma negoziale, che li aveva sinora posti in una posizione di superiorità rispetto agli americani, come l’embargo del 1973 dimostrò. Potrebbe dunque profilarsi la possibilità, per gli USA, di condurre i negoziati di pace israelo-palestinesi con maggiori margini di manovra rispetto al passato. Difficilmente, però, una plausibile condizione di autosufficienza energetica degli USA si tradurrà in un totale disimpegno dal Medio Oriente, anche perché chi potrebbe assorbire un eventuale vuoto di potere lasciato da Washington?

La Cina potrebbe porsi tra i potenziali concorrenti, ma Pechino sembra ancora molto restia ad assumersi importanti responsabilità sul piano politico e della sicurezza internazionale. Allo stesso modo la Russia sembra impreparata a recitare una politica estera regionale di ampio respiro. Per storia e cultura Mosca è interessata ad aumentare il suo rango in Caucaso e Asia centrale cercando di puntellare le sue posizioni di forza in Siria. Tuttavia il recente avvicinamento ad Egitto e Iraq, per ora solo sotto forma di penetrazione commerciale-militare, suggerirebbe una strategia russa volta a subentrare al ruolo di egemone di Washington lì dove essa diventa più debole. Il ruolo degli USA come “poliziotti del mondo”, in fondo, continua e continuerà ancora, anche nell’”età dell’oro del gas”.

Annalisa Boccalon è Dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Trieste)

Photo credit: Kacper Pempel/Reuters

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