Infatti è del tutto ovvio che un cancelliere socialdemocratico sia meno disponibile a concessioni di denaro per mantenere in piedi un sistema dominato dalla finanza e sia invece più portato ad usare le risorse disponibili per un aumento reale di salari e stipendi che da una dozzina d’anni sono fermi al palo, ancorché assai superiori a quelli italiani, creando un senso di insicurezza e di scontento che i nostri media ovviamente non riportano. In questo quadro il centro sinistra in Germania, al contrario che in Italia pur nel suo europeismo di fondo, è assai meno favorevole all’euro, visto come moneta usata contro il lavoro. Ecco perché sta nascendo un intenso dibattito sulla moneta. Ma per capirlo dobbiamo metterci dall’altra parte dello specchio.
Non c’è dubbio che la divisa unica abbia portato grandi vantaggi alla Germania, prima consentendo al Paese un boom del proprio export grazie a una divisa meno forte rispetto all’economia tedesca e tuttavia di respiro mondiale. Poi stroncando la competitività dei tradizionali concorrenti, tra i quali l’Italia, che non hanno più potuto servirsi delle loro monete deboli per dare vigore alle esportazioni. E infine, nel pieno della crisi, consentendo notevoli risparmi sui titoli di stato a causa della guerra sugli spread. Tutto questo però è ormai il passato e ora c’è da pagarne le conseguenze: l’impoverimento della periferia non solo mette a serio rischio un’importante fetta di esportazioni, ma la politica di contenimento salariale e di tagli al welfare non consente una riscossa del mercato interno, mentre si profila la possibilità di un gigantesco salasso qualora si volesse davvero intervenire a salvare i Paesi in difficoltà.
Da quando è scoppiata la crisi la politica della Merkel è stata quella di non fare niente, di limitarsi a mantenere lo statu quo ante. In alleanza con i centri finanziari si sono imposti enormi e controproducenti massacri sociali nella periferia continentale nel tentativo di non dover accollarsi l’onere dei debiti del resto creatisi anche grazie al divario import-export con la Germania. Si è utilizzata l’Europa come pretesto per giustificare l’impoverimento senza minimamente avere l’intenzione di dare impulso a una vera crescita e unificazione nel segno della politica, si è lasciato fare alla finanza. Del resto con un Paese sottoposto a una severa deflazione salariale e anche alla precarizzazione, chiedere ancora di più – e molto di più – sarebbe stato politicamente impraticabile.
A questo punto è chiaro che proprio l’euro è la piaga, l’asset che si è rivelato economicamente perdente nella crisi – tanto per usare un linguaggio caro ai personaggi che ci governano – anche se con una funzione politica essenziale nell’essere strumento delle tesi liberiste. Più che ovvio che un nuovo governo tedesco e di segno diverso, debba prendere delle decisioni dopo il lungo barcamenarsi della Merkel. E’ solo da noi che si pensa di non fare scelte e di abbandonarsi alla corrente, attenti solo a salvare interessi e privilegi con una straordinaria noncuranza verso i cittadini e la cittadinanza in sé.
Tanto per riassumere il senso del dibattito che si sta svolgendo da Flensburg a Bolzano, si vanno formando due tesi di fondo entrambe basate sullo stesso presupposto che del resto circola da un secolo e mezzo: la Germania ha una grande economia, ma non ha la massa critica per poter svolgere il ruolo mondiale necessario ad alimentarla. Questa massa critica può essere fornita dagli altri grandi Paesi dell’Europa spingendo quindi la Germania ad essere il motore di una progressiva e reale integrazione continentale. A questo fine l’euro potrebbe rivelarsi un ostacolo più che un vantaggio e forse sarebbe il caso di sacrificarlo e trasformarlo semmai in una specie di Ecu più evoluto. L’altra tesi è che tutto questo processo è troppo lungo, difficoltoso e pieno di insidie e potrebbe rivelarsi superiore alle forze: tanto vale sganciarsi e ricercare la massa critica in quel lebensraum economico già formato che comprende ovviamente l’Austria, ma anche la Cechia, la Moravia , la Slovacchia, l’Ungheria, la Slovenia, i Paesi Baltici, la Romania, almeno nella zona transacarpatica, parte dei Balcani e forse la Danimarca. Un obiettivo molto più modesto, ma certamente più facile. In fondo non sarebbe altro che la ricucitura di quel mondo tedesco anteriore alla prima guerra mondiale, con qualche aggiunta.
In ogni caso è chiaro che non si potrà perpetuare l’immobilismo insensato di questi anni, sul quale tuttavia noi stiamo costruendo tutte la nostra politica e il nostro avvenire. Declinando il declino, si potrebbe dire.