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la ginnastica di Italo Calvino

Creato il 15 ottobre 2013 da Strettalafoglia @strettafoglia

Riuscirò a rimettere i piedi sulla terra?, si chiede Italo Calvino nell’introduzione che chiude il suo lavoro alle Fiabe italiane.

Nella duecentesima e ultima fiaba della raccolta, intitolata Salta nel mio sacco! e proveniente dalla Corsica, a un certo punto si legge:
«Francesco lo Zoppetto, stanco morto e disperato, non trovando più i fratelli aveva gridato, aveva pianto, e poi s’era addormentato sul ciglio della strada. La Fata di quel posto, dalla cima d’un albero, aveva visto e sentito tutto. Appena Francesco si fu addormentato, scese dall’albero, andò a cogliere certe erbe che sapeva lei, ne fece un impiastro, glielo mise sulla gamba zoppa, e la gamba da zoppa divenne sana. Poi ella prese l’aspetto d’una povera vecchina e si sedette su di una fascina aspettando che Francesco si svegliasse».
In nota Calvino puntualizza un dettaglio: «nella prima apparizione della Fata, il farla stare in cima a un albero è arbitrio mio».

Un anno prima, nel 1955, così scriveva in un saggio intitolato Il midollo del leone:
«Le cose che la letteratura può ricercare e insegnare sono poche ma insostituibili: il modo di guardare il prossimo e sé stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare la proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto della morte , il modo di pensarci o non pensarci; la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo e tante altre di queste cose necessarie e difficili.
Il resto lo si vada a imparare altrove, dalla scienza, dalla storia, dalla vita, come tutti noi dobbiamo continuamente andare ad impararlo».

Salire e scendere dall’albero, guardare le cose da una prospettiva più ampia e poi scendere e modificarle, dal basso. Perché a restare in alto non si è utili a nessuno, proprio a nessuno.

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