“Un forte egoismo instaura una protezione contro la malattia; tuttavia, prima o poi bisogna ben cominciare ad amare per non ammalarsi e se, in conseguenza di una frustrazione, si diventa incapaci di amare, inevitabilmente ci si ammala”
(Freud, 1914)
Che non fosse proprio passionale come Almodóvar, lo sapevamo già. Ma neanche disordinato come Kusturica o barocco come Luhrmann. Semplicemente essenziale, narrativo, freddo come una sala operatoria. David Cronenberg racconta in “A dangerous method” il rapporto conflittuale, prima di amore, poi di odio, tra i due padri fondatori della psicanalisi, Carl Gustav Jung e Sigmund Freud, ma non solo. Alla base, certo, c’è la conoscenza e poi allontanamento tra i due, piccola telenovela europea che fa da sfondo ad un’altra ben più complessa faccenda: l’incontro tra Jung e la paziente Sabina Spielrein, destinato, già dal primo momento a trasformarsi in una storia d’amore disperata e ai confini della moralità. Lei, interpretata da Keira Knightley, venti chili scarsi di inquietudine, espressioni pazzoidi un po’ forzate e poca credibilità, a mio parere. Ma intelligentissima, geniale possiamo azzardare anche perchè, spesso, genio e pazzia vanno di pari passo. Dai suoi turbamenti quindi, Cronenberg ha fatto sì che emergesse tutta la sua passione nei confronti di una scienza, la stessa nata apposta per studiare le malattie, i disturbi, le idiosincrasie che affliggono spesso e volentieri persone come lei, così fragili ma al tempo stesso, così brillantemente acute. Sabina si innamora così, come da copione abbastanza rodato nella storia, del suo maestro, l’unico uomo forse che nella sua vita le ha dato fiducia, ha creduto in lei e ha visto in lei ciò che veramente è: una donna consapevole, della sua malattia ma anche delle sue capacità, della sua ambizione nel voler trasformare il male che la accompagna in stimolo allo studio, all’indagine nei meandri di questa nuova, intrigante disciplina: la psicanalisi. Jung è affascinato da tutto questo e si innamora di lei, della sua mente schizzata ma al tempo stesso vulcanica, capace di metterlo in serie difficoltà. Ma non abbastanza. Il personaggio infatti meglio disegnato è la moglie di Jung, dolce, devota, silenzioso angelo fabbrica-figli, nel tentativo disperato di legare quell’uomo sempre più a sè, per non farlo scappare forse, consapevole del fatto che prima o poi, la Spielrein di turno sarebbe arrivata, per portarglielo via. Ma che dico portarglielo via, nessuna amante, quasi nessuna, riesce o è mai riuscita a portare via il marito ad una moglie: l’amante, in questo caso Sabina, rappresenta la passione, il confronto, il dialogo alla pari. Troppo rischioso, troppo invadente anche per un illustre cervello come quello di Jung che quindi, all’irrazionalità, all’istinto, all’imprevedibilità, all’avventura, sceglie la sicurezza, l’affetto, la tranquillità emotiva che solo la moglie gli può dare. Deludente da parte sua, dottor Jung, soprattutto per il fatto che è proprio la componente irrazionale che lei prende in considerazione nella psicanalisi che ha contribuito al “divorzio” da Freud: mi viene quasi da pensare che lei non sia proprio un’icona di coraggio, oppure ha vinto il timore di perdere il riflettore puntato su di sè? Passando al rapporto con Sigmund, resta da capire se l’abbia più infastidito la convinzione di quest’ultimo che tutti i disturbi più frequenti della personalità umana siano causati dalla libido, dalla mancanza di un buon rapporto con la sfera sessuale, o il rifiuto di pensare che esista una componente irrazionale nella sfera psicanalitica. Forse è il caso di parlare di allievo che supera il maestro, o forse è normale, ad un certo punto, che due menti del genere si trovino in contrasto. Fatto sta che Jung, ad un certo punto compie un’evoluzione: verso il simbolo, che tanto l’ha affascinato, verso la teoria della sincronicità, alla base dei suoi studi che lo hanno poi portato ad interessarsi ai tarocchi e all’antichissimo calendario agricolo dell’I ching, convertito a metodo di divinazione, dimostrazione del fatto che nulla accade per caso, e che tutto è già scritto e definito nell’inconscio di ognuno di noi…Un vero cammeo di questa pellicola è il personaggio di Otto Gross, psichiatra tossicodipendente, magistralmente interpretato da Vincent Cassel., con tanto di sguardo folle e physique du rôle. Vero Mercuzio di inizio secolo, dissacrante e ambiguo, rappresenta l’animo sfuggente che preferisce vivere intensamente pochi anni piuttosto che diluire le emozioni in un’intera vita.
La storia termina con una Sabina realizzata e in attesa del primo figlio che incontra, dopo vari anni dedicati allo studio, il maestro Jung, triste e dominato dalle sue ossessioni, tra cui anche l’amore per lei, mai completamente realizzato, ma racchiuso in uno scrigno che come un vaso di Pandora, ha scelto di tenere chiuso.