La grande bellezza
di Paolo Sorrentino
con Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli
Italia 2013
genere, drammatico
durata 144'
Una discesa nell'ade ma non solo. L'inizio è solenne, con il colpo di cannone che annuncia il mezzodì e materializza in un attimo la presenza del tempo. Un compito che di lì a poco sarà devoluto ai monumenti della città, testimoni di una maestosità che annichilisce la distanza tra quel passato glorioso ed un’attualità che di grande ha solo le feste di Jep Gambardella (un immenso Toni Servillo), principe di una corte di nani e ballerine. Per introdurlo Sorrentino mette in scena un corto circuito tra fisico e metafisico, tra il qui e l'altrove, tra la vita e la morte, con lo sgomento seguito al malore del turista straniero ingoiato dall'urlo dell'erinni danzante che ci apre le porte del regno delle tenebre, dove Gambardella scrittore pentito e giornalista di successo viene celebrato nel giorno del suo compleanno. E’ questo stacco improvviso ed impercettibile a decidere le sorti della storia da quel momento in poi, e siamo appena all’inizio, sospesa in una dimensione di labile apparenza, con la mondanità indolente e carnale di Jep Gambardella pronta a convivere con il viaggio dantesco di un uomo alla ricerca del senso della vita. Così accanto al carosello d’amici e conoscenti che rappresentano con la loro umanità difettosa lo spaccato di una società contemporanea decadente e lacunosa, prende piede e si espande lo stato d'animo del protagonista, dapprima letteralmente fagocitato (la prima apparizione di Jep avviene tra due ali di folla che si aprono plaudenti dopo averlo a lungo sottratto alla vista) dal baccanale di corpi e di parole organizzato per sconfiggere la noia, e poi progressivamente esploso nella rappresentazione di un mondo interiore che prende forma e si esprime attraverso una serie d’incontri e d’apparizioni tanto fantomatiche quanto decisive nel trasformare - con le riflessioni che emergono da quel confronto- il sorriso baldanzoso di Jep in uno sguardo sorpreso ed incerto. Un movimento lento e ieratico che sostituisce il ritmo vorticoso e violento della prima parte di film, a cui si adeguano anche le parole, più contenute e chiamate a raccolta da un pensiero che si prepara alla visione del sacro Gral, la grande bellezza del titolo, di cui Jep avrà visione alla fine del suo pellegrinaggio.
Dopo la parentesi americana, Sorrentino riprende a scavare negli interstizi del paesaggio italiano ed aggiorna il suo cinema fatto di maschere e di personaggi con la figura di Jep Gambardella, nella cui avventura esistenziale sembra trovare la sintesi di una poetica della “diversità” priva degli eccessi, anche iconografici, che avevano caratterizzato i protagonisti dei suoi ultimi film, tutti per un verso o per l’altro schiacciati dalla propria deformità fisica e psicologica. In questo caso invece Gambardella non solo si presenta come un “bell’uomo”, amato dalle donne e forse anche dagli uomini, ma a differenza dei suoi predecessori, completamente attivo dal punto di vista del coinvolgimento fisico, e non solo intellettuale, con la realtà che lo circonda. “Divo” acclarato e magnanimo il protagonista di “La grande bellezza” ribadisce dal punto di vista caratteriale la tendenza di Sorrentino a costruire figure ambivalenti, in cui il primato di una consapevolezza – di sé e del mondo - che le rende uniche diventa la ragione di un atteggiamento partecipato ed insieme disincantato, e dove la voglia di incidere deve fare i conti con il desiderio di fuga e di isolamento. “La grande bellezza" ne è la prova lampante, con la convivenza di pieni e di vuoti, anche sonori (la musica a tutto volume di Raffaella Carrà contrapposta all’assenza di rumore su cui la ballerina dietro il vetro si muove nella scena del compleanno di Jep) ma più che altro nella corrispondenza tra le lunghe passeggiate solitarie per le strade deserte della capitale ed il surplus d’umanità dei riti collettivi a cui il protagonista generosamente si concede. Ma queste peculiarità non sarebbero sufficienti a rendere grande il film di Sorrentino se a sorreggerlo non ci fosse il connubio visivo sonoro di pregnante densità, emotiva ed estetica che costituisce da sempre elemento imprescindibile della sua arte. Prendendo a prestito la magnificenza vetusta e sublime di Roma, riscritta ad immagine e somiglianza di un personaggio allo stesso modo debitore di un passato glorioso (il primo ed unico libro scritto da Jep) di cui il presente è solo un magnifico riflesso, Sorrentino mette in pratica le parole di Jep, sostituendo il chiacchiericcio con le geometrie silenziose della macchina da presa capace di imprigionare il mistero del mondo in un tessuto d’immagini in continuo movimento.
Supportato dalla luce di Gianluca Bigazzi e dal suo cromatismo crepuscolare, il regista riesce a cogliere il sentimento di generale scoramento che si nasconde sotto le liturgie che si ripetono senza variazione di sorta nel corso del film, e che hanno la loro apoteosi nella lezione di “bon ton” funerario messa in pratica da Jep in occasione delle esequie del figlio dell'amica: valga per tutti il volto di Carlo Verdone, quasi sempre in penombra ed illuminato da colori spenti, ad enfatizzare la malinconia e la stanchezza di vivere del personaggio (Romano) da lui interpretato, ed all’opposto la mancanza di contrasti che caratterizza quello di Ramona (una Sabrina Ferilli asciutta ed intensa), a sottolineare l’assenza di esitazioni che caratterizza la sua scelta esistenziale.
Una struttura formale, quella messa a punto da Sorrentino per “La grande bellezza” in grado di contenere anche i difetti di un ambizione che certamente non manca, e che fa capolino nell’estensione della sequenza girata nel bar in cui Jep si reca a comprare le sigarette, e dove sembra invaghirsi di un giovane avventore, in cui prima la musica dichiaratamente americana, e poi l’uso pressoché totale del rallenti, individuano le scorie di un’artificiosità mutuata da “This must be the place”, oppure nel paragone tra l’ascetismo spirituale di Suor Maria, la Santa modellata sulla figura di Madre Teresa a cui va la bandiera di una religione lontana dai lussi e dalla vacuità del cardinale Bellucci (Roberto Herlitzka), e quello fisico ed agnostico di Jep, che rinuncia alla sensualità prorompente di Ramona, compiacendosi della di quella scelta. Sacrifici in nome di un bene superiore che Sorrentino suggella in maniera enfatica nell’ascesa della scala santa effettuata da Suor Maria in ginocchia ed in condizioni di salute precarie, e con una certa ingenuità nella comprensione di un’armonia universale presentata attraverso lo stormo d’aironi che riposano nel balcone della casa di Jep. D’altronde la bravura del regista napoletano è propria quella di viaggiare sul filo del rasoio, lavorando sugli opposti di una cultura alta e bassa, che solo il gigantismo della personalità a cui ci hanno abituato i personaggi di Sorrentino riescono a contenere ed a rendere equilibrati. In questo senso Jep Gambardella, pronto ad entrare nella galleria dei grandi personaggi del cinema italiano è la garanzia di un risultato che sfiora il capolavoro.
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