La grande bellezza, scritto (insieme a Umberto Contarello) e diretto da Paolo Sorrentino, già dalla sua presentazione, in concorso, al 66mo Festival di Cannes, si è rivelato un film capace di sorprendere e spiazzare, destinato a convivere, a parere di chi scrive, almeno sino alla definitiva consegna ai posteri (il tempo può essere galantuomo, anche in campo cinematografico), tra estimatori e detrattori a contendersi il campo in eguale misura. Assolutamente da vedere, la pellicola rappresenta l’ulteriore affermazione di un autore capace d’imprimere alle sue opere un notevole fascino visivo, grazie ad immagini felicemente intarsiate (un plauso alla fotografia di Luca Bigazzi) nella loro sfrontata scomposizione giocata sull’alternanza fra carrellate e primi piani di persone, luoghi, oggetti, unite da una valida colonna sonora (Lele Marchitelli), a sua volta in grado d’esprimere disinvolti e stranianti voli pindarici (da The Lamb, eseguita da The Choir of Temple Church a Mueve la colita, El Gato dj, passando per Far l’amore, di Bob Sinclair e Raffaella Carrà).
Roberto Herlitzka e Toni Servillo
Fra qualche insistito estetismo ed una certa ridondanza verbale, in particolare a livello di citazioni letterarie, a volte troppo didascaliche, La grande bellezza si delinea come un affresco a suo modo geniale e spietato, un ipnotico susseguirsi di toni grotteschi, surreali ed intimisti.Va in scena un’ “umana commedia” (riguardo il divino, vi è rimasto poco o nulla, vedi il cardinale interpretato da Roberto Herlitzka, esperto in ricette per salvare la buona cucina, non certo l’anima), la decadenza propria di una determinata classe intellettuale, rappresentata dal protagonista Jep Gambardella (Toni Servillo, splendida maschera, tra disincantato cinismo e poesia), scrittore 65enne fermo al suo primo romanzo, L’apparato umano, risalente a quarant’anni orsono ed ora annoiato giornalista mondano.
I componenti della suddetta cerchia avevano in sè la capacità d’imprimere una svolta inedita al paese, un’alternativa forte e concreta alla decadenza morale che iniziava a bussare alle porte a partire dal periodo immediatamente successivo al boom economico, ma si arroccavano tra i vezzi di una presunta superiorità, incuranti del marcio insinuatosi man mano in ogni livello sociale, assecondandone l’evoluzione, placidamente integrati in un sistema volto ad uniformare ogni cosa, servendosi del collante dell’apparenza sfrontata, fra vuoto e volgarità, e per di più nell’irrisolta dicotomia comportamentale fra condanna da bravi benpensanti e forte attrazione.
Carlo Verdone e Servillo
A far da sfondo a questo viaggio nei vari gironi, fra ignavia, accidia, stelle televisive e/o cinematografiche in disarmo, poeti silenti, pseudo artiste concettuali, bambine istigate all’arte, giovani suicidi, botox serializzato, vi è Roma, la Capitale, la quale sembra gridare inni al cielo attraverso le antica vestigia così acclamate dai turisti e dimenticate dai più, distaccandosi spiritualmente dai moderni baccanali che ogni sera d’estate riempiono le terrazze di lussuosi appartamenti o i giardini delle grandi ville. Sono questi i luoghi dove Jep vaga come un novello Virgilio, accompagnando Sorrentino/Dante nella visualizzazione di un mondo in cancrena, in cui si riesce ad avvertire un minimo di conforto e ritrovata, primigenia, purezza nei due personaggi di Romano (Carlo Verdone) e Ramona (Sabrina Ferilli). Rispettivamente scrittore teatrale, non certo di successo, ma che crede nella propria arte, espressa con un forte richiamo alla tradizione, e spogliarellista relativamente avanti negli anni, ingenua e disadattata, sono ambedue capaci d’esprimere un candore disarmante, genuino, non artefatto, nel porsi dinnanzi la vita, consapevoli o meno di come un’apparente sconfitta possa assumere i contorni di una vittoria se avviene all’interno dell’affermazione del proprio io e di ciò in cui si crede, quando il mondo sembra prendere tutt’altra direzione.Sabrina Ferilli
Ecco che Jep vede vacillare man mano il suo cinismo pratico, adatto ad ogni occasione (la scena del funerale), assecondando un mutamento dai contorni spirituali o comunque metafisici, rafforzati dall’incontro con un’anziana suora missionaria, il cui decadimento fisico sino alla consunzione, in nome di una forte fede come valore portante, si contrappone al lento disfacimento di chi ha sprecato il proprio talento in attesa di un’ispirazione superiore che dovrebbe partire invece dal proprio io, sino a cristallizzarsi simbolicamente nel ricordo di un amore giovanile, probabile fiore non colto o coltivato senza la dovuta attenzione.La grande bellezza allora potrà anche assumere le sembianze di una semplice suggestione, un ritorno alle proprie origini con animo sgombro e puro, allineando il proprio sguardo a quello primigenio di un bambino in procinto d’iniziare la sua avventura nel mondo, la capacità di rinascere attingendo dal proprio passato per vivere meglio il presente, mentre Roma, racchiusa nel piano sequenza sul quale scorrono i titoli di coda, si fa forte della sua sospensione temporale, nell’attesa di un ritorno o dell’ultimo saluto.