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Ci sono pochi film che ti segnano quando esci dalla sala. Film che per qualche ora –e, se si è fortunati, per qualche giorno- riempiono con la loro poesia visiva, facendoti vedere il mondo in modo diverso, ricercandone e trovandone la bellezza.
Sono ancora meno i film italiani che riescono in quest’impresa, vessati come siamo da un pubblico alla ricerca della risata facile, degli stereotipi e delle saghe in cui staccare la mente per qualche ora.
Ad allontanarsi da questo filone è, da sempre, Paolo Sorrentino. Un regista italiano che ha però abbracciato uno stile internazionale nelle sue opere, arrivando a sbarcare negli States con This must be the place. Il suo ritorno in patria era quindi rischioso, e leggere nel cast nomi come Sabrina Ferilli e Carlo Verdone ad affiancare il feticcio Toni Servillo faceva rabbrividire e la paura per un buco nell’acqua era alta. I 10 minuti di applausi a Cannes (nonostante l’uscita a mani vuote dalla kermesse) e il successo di pubblico nelle ultime settimane, conferma invece che Sorrentino non ha perso il suo smalto, ma che anzi, con La grande bellezza la sua capacità registica e il suo graffio si sono fatti ancora più profondi.
Il tutto si capisce fin dall’inizio, con un cororeligioso a fare da sfondo e l’accecante bellezza della città eterna mostrata con sapienza di movimenti che finiscono per far stramazzare al suolo un semplice ed estatico turista orientale. Sindrome di Stendhal? Crepacuore? Roma può avere anche questa conseguenza, e uscire dal cinema senza il desiderio di rincorrere e scoprire le ambientazioni di scena è quasi un peccato mortale.
Ma Roma non è solo questo, anzi. Roma è gente colta e acculturata o solo molto snob, è aperitivi vista Colosseo, è principi e principesse decaduti e ora in affitto, è feste a non finire, è sesso facile e ipocrisia, tanta ipocrisia. Questa è la Roma che Servillo ci mostra, questa è la Roma vissuta da Jep Gambardella un romanzo alle spalle e solo tanta bella vita poi che lo ha portato all’apice della scala sociale. Jep è l’uomo di mezza età che non ha peli sulla lingua, incantato ma annichilito dalla sua città, circondato da amici di facciata, amici ipocriti più di lui perché inconsapevoli di esserlo. Jep si muove nel suo universo romano senza lasciare che qualcosa lo tocchi davvero, che sia una performance artistica o l’ennesima avventura, ma compiuti 65 anni qualcosa scricchiola, e a causa della morte del suo primo amore, la sua vita gli appare in tutta la sua piena vacuità.
Ridurre però La grande bellezza ad una trama non sarebbe giusto, ci si trova infatti man mano in situazioni e ambienti diversi, a seguire Jep nelle sue camminate alle prime luci dell’alba, nelle feste e nei ritrovi. Lo si segue e così si conosce l’universo che lo circonda, scoprendo il lato amaro di una vita tanto facile, scoprendo le bugie e i falsi sorrisi nei volti di ognuno.
Sorrentino non risparmia nessuno, mette al vetriolo una società dell’apparire, in cui vengono compresi anche clero e aristocrazia, con battute fulminanti e dialoghi illuminanti. La sua macchina da presa si muove sorniona, compie evoluzioni e scopre una città tutta da scoprire, una città bella, grande e bella usando come sottofondo una colonna sonora in cui canti religiosi si amalgamano alla perfezione a canzoni intimiste. Toni Servillo è come sempre immenso, e regala la sua ennesima interpretazione ad alti livelli che si va a collocare nella sua ormai stupefacente filmografia, ma Sorrentino dimostra le sue doti anche riuscendo a riunire un cast non facile e eterogeneo dirigendolo splendidamente, prova ne sono quel Verdone e quella Ferilli che sicuramente trovano nel film il ruolo della loro carriera.
Nonostante qualche impasse, e la lunga, forse troppo, durata complessiva (a mio avviso, il finale a 100 minuti era ottimo) si arriva alla fine con qualche lacrima, più di un’emozione e la sensazione che, in fondo in fondo, il buon cinema italiano si sa ancora fare.
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