È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore.
Il silenzio e il sentimento. L'emozione e la paura.
Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza.
E poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile.
Tutto sepolto dalla coperta dell'imbarazzo dello stare al mondo. Bla. Bla. Bla. Bla.
Altrove, c'è l'altrove.
Io non mi occupo dell'altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio.
In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco»
(Jep Gambardella)
Di solito, dire di un film che "ha delle belle immagini" è come dire di un romanzo che "ha una trama scorrevole" o di una musica che "ha una bella melodia": un modo gentile per decretarne la sostanziale, ancorchè gradevole, irrilevanza. Ma anche questa regola ammette le sue corpose eccezioni, e in realtà dallo scabro bianco e nero del Settimo sigillo ai caldi cromatismi di Barry Lindon la storia del cinema è piena di film che abbinano ad immagini di grande impatto grafico un contenuto indimenticabile.E' questo il caso anche dell'ultimo (capo)lavoro di Paolo Sorrentino, La grande bellezza, film che con colpevole ritardo sono riuscito a vedere solo in questi giorni: un film dall'abbacinante ricchezza visuale e contemporaneamente ricco di spunti e riflessioni come una grande opera letteraria.
E' impossibile sintetizzare in poche righe tutto il mondo di personaggi che ruota intorno a Gambardella, tutte le storie che intersecano la sua, dalle delusioni erotico-letterarie di Romano (Carlo Verdone) alla meravigliosa figura di Ramona (Sabrina Ferilli), una delle poche figure tratteggiate con affettuosa e calda partecipazione, e via via alla Santa, ai nobili "a noleggio" o al cardinale-gourmet.
E poi c'è Roma, indagata e raccontata con una potenza visionaria che a mia memoria ha pochi paralleli nel recente cinema italiano e non solo. La Roma rinascimentale del tempietto del Bramante, la Roma barocca di Piazza Navona e Villa Medici, la Roma antica delle terme di Caracalla in cui è ambientata la bunueliana scena con la giraffa: una scena che tra suggestioni visuali e profondità di sceneggiatura potrebbe segnare da sola la grandezza del film.
Come tutte le opere d'arte pienamente riuscite, anche il film di Sorrentino può essere letto su innumerevoli piani: c'è ovviamente la storia nuda e cruda di un uomo che si è perso e che cerca faticosamente di ritrovarsi; ma c'è anche il piano dell'allegoria, quello di una vicenda che sembra simboleggiare il declino, la deriva irresistibilmente trash di un'intera città, di un'intero Paese. Sorrentino è spietato nel tratteggiare la volgarità che si respira in maniera trasversale attraverso tutti gli strati sociali, dal burino con panzone e canottiera d'ordinanza che si rinfresca nel fontanone dell'Acqua Paola all'ostentazione pacchiana di lusso degli invitati alle feste di Jep. Questo effetto irrimediabilmente inquinatore della presenza umana è reso in maniera nitidissima tramite il contrasto fra sequenze piene di chiacchiere, persone e rumore e le immagini di una Roma quasi deserta e restituita all'incanto senza tempo dei suoi monumenti, delle sue linee e della sua luce.Ma allo stesso tempo il regista ha ben presente che il rimedio a tutto ciò non è certo l'intellettualismo d'accatto: non a caso gli unici due momenti di autentica ferocia dialettica di Gambardella sono riservati alla demolizione delle certezze radical chic di una soi-disant performer e di una donna "impegnata" con maggiordomo, autista e baby sitter.
Non è un film facile, La grande bellezza. Non lo è per l'ampiezza e la profondità delle riflessioni che propone, non lo è per la durata che travalica di almeno 40' la canonica ora e mezzo, non lo è perchè l'analisi che tratteggia è dura e non fa sconti a nessuno. Eppure il regista ha scelto di non chiudere il film sul pessimismo, su una diagnosi impietosa di una malattia a prognosi infausta. La via d'uscita che Sorrentino propone (o quantomeno: a me è parso proponga) passa per il ritrovare dentro sé stessi quello che si è, un viaggio faticoso come l'ascesa della Scala Santa da parte della monaca ultracentenaria: ma che è l'unico in fondo al quale troveremo ad attenderci - forse - quella grande bellezza la cui voce è normalmente coperta dal rumore.
E forse non è un caso che la musica di questo film (una scelta di brani di estrazione diversificatissima ma sempre adeguati alle scene che devono accompagnare) compia una sorta di percorso di alleggerimento che parte dal frastuono insensato di un mix da discoteca e va ad approdare alla rarefatta bellezza di The Beatitudes, un brano del compositore russo Vladimir Martynov eseguito dal Kronos Quartet. Dal formicaio di una terrazza romana troppo affollata alla tranquilla ampiezza del Tevere navigato all'alba: un viaggio che dura due ore e venti e che val la pena di percorrere tutto, non foss'altro che per capire (o ricordarsi) che rallentando il ritmo e abbassando il volume è più facile trovare la rotta e arrivare all'approdo.