Ad oggi non mi sono ancora giunte chiare le motivazioni che hanno spinto una folta massa di fruitori medi di prodotti cinematografici, per lo più classificabili come orribile spazzatura, ad improvvisarsi critici e cinefili dotti, tutti improvvisamente nostalgici di un neorealismo oggi come non mai fuori dal tempo e dalla storia, tutti appassionati studiosi e cultori di un regista, Paolo Sorrentino, di chiaro, obiettivo e stimabile spessore.
Al di là delle personali interpretazioni di questo capolavoro cinematografico, che di certo vanta svariati livelli di significato, mi sono divertita ad osservare la piccola sommossa provocata dalla fruizione di questo film, che, in una società così intensamente mediatica e ricca di reti di comunicazione capillari, si fa fatica a distinguere se vanti una natura di per sé rivoluzionaria o se sia piuttosto il frutto di una saggia diffusione mediatica.
Scartando quelli di chi realmente può permettersi di valutare un lungometraggio con il giusto rispetto, ho considerato i pareri del cosiddetto “italiano medio”, quello che mi è più a portata di mano, quello che, per intenderci, sabato scorso è andato a vedere questo, ed il sabato prima aveva visto Una notte da leoni 3, trovandolo “sempre una figata, ma non così divertente come gli altri due”.
Al di là sempre delle personali opinioni che si possano avere sui vari registi, credo che ci troviamo qui nel caro vecchio problema ben noto all’arte contemporanea, e cioè il dilemma che essa deve porsi al momento di stabilire chi deve avere la possibilità di comprenderla e come e quanto.
Io credo che un personaggio come Sorrentino, nel dare in pasto alle masse un progetto simile, sia consapevole del fatto che una ben misera parte dell’utenza sarà in grado di dare al suo prodotto il giusto valore. Io credo che lo faccia con la triste certezza di vedere il suo dotto e brutale messaggio storpiato e martoriato dai vari pareri che tutti democraticamente abbiamo la possibilità di dare.
Credo per questo che un artista, anche il più grande, concepita e prodotta l’opera d’arte debba fronteggiarsi con un ulteriore e non minore difficoltà, ciò quella dell’universo in cui quest’opera d’arte andrà a collocarsi, che è, come abbiamo imparato, un aspetto importante e non secondario dell’opera stessa.
Insomma, a conti fatti, se ti chiami Mark Rothko e crei quadri quotati milioni di dollari, capolavori che lasciano senza parole fior fiore di critici d’arte e studiosi, avrai sempre la triste quanto simpatica consapevolezza che ci sarà sempre un’enorme fetta di utenza che si burlerà di te e dei tuoi “Untitled” come la parodica e (non sempre) infondata scimmiottatura del Guzzanti e del suo Tonino Mutandari, che rendeva “il tuo sottoscala grrrande protagonista del Novecento!”.
Written by Francesca Lettieri