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Pochi versi per una sorta di poesia crepuscolare che impasta e addensa, con marcate allitterazioni, concetti sferzanti e vaghi, che alludono al vuoto e al pieno della vita, di qualsiasi vita. Le parole che chiudono La grande bellezza inquadrano perfettamente l’aura che avvolge il capolavoro di Paolo Sorrentino, perché stavolta, sì stavolta, dopo il deludente e slavato This must be the place, possiamo davvero parlare di capolavoro. La grande bellezza: nomen omen. Perché il sesto lungometraggio del regista napoletano è un’opera che custodisce in sé la (quint)essenza del Cinema, tutto quel “bello del cinema” che prende forma nella capacità, tramite immagini di sublime ricercatezza estetica, di raccontare il nulla e farlo sembrare il tutto. Un nulla che assume un duplice significato: da un lato il parlare, come il monologo finale inequivocabilmente afferma, di grandi temi universali quali la morte e la vita, la riscoperta delle radici e la nostalgia del tempo che fu, l’amore e la vanagloria, insomma l’alfa e l’omega; dall’altro la fuffa che satura ogni momento dell’esistenza del mondano, di chi vive di vibrazioni e sensazioni a (fior di) pelle, e confina nella festa e nella movida tutto se stesso, fino all’ultimo respiro, fino a perdersi e non andare da nessuna parte proprio come i magnifici trenini di casa Gambardella.
Parole, parole, parole. Con fare bukowskiano, Sorrentino riesce laddove il più volte citato Flaubert non è mai riuscito: scrivere un romanzo con protagonista il nulla. Sorrentino ce la fa nel suo film più maturo e strabiliante, dove è superbo imbonitore, sommo ciarliero, blablatore capace di farci letteralmente pendere dalle labbra di Jep Gambardella e amici. Va in scena un affresco pregevole, in toni e umori, di un’umanità in declino, sull’orlo di una crisi di nervi e disperazione, alla continua (non) ricerca di sé, che dedica al sonno due ore a notte. Ma se il vortice della “vita” ti travolge ante tempore (Jep entra nella più orrida mondanità romana a soli 26 anni), rischi di perdere di vista la grande bellezza della (beata) gioventù, che su uno scoglio, nella purezza di una Venere terrena e (im)pudica, in silenzio, fa commuovere.
Sorrentino è contemporaneamente pittore impressionista e rinascimentale, manierista e post-moderno. Tocca la tela con pennellate inavvertibili e incisive, consegnandoci un quadro che via via si fa sempre più nitido e bello, proprio come quel telone (cinematografico?) preso a secchiate da una enfant prodige in totale e scioccante trance artistica. La macchina da presa danza senza requie, si avvicina e si allontana, piega la testa e struscia sulle pareti, procede simmetrica e ortogonale fino a sorprenderci con travelling mozzafiato. Il risultato è dei più belli e rari anche grazie a un Toni Servillo, attore feticcio per Sorrentino dai tempi de L’uomo in più, che, valicando un’asticella già molto alta dopo Il Divo e Viva la libertà, ci regala senza dubbio la prova più alta e intensa della sua carriera. Lo circonda uno zoo antropomorfo capeggiato da una straordinaria Sabrina Ferilli, che impersona con popolanità verace ed elegante uno dei personaggi più tragici, perché, come Jep, destinata alla sensibilità. In merito a Carlo Verdone, è apprezzabile l’impegno, ma la parte drammatica non gli calza proprio addosso, nonostante quei baffettini da intellettual-decadente che cercano di camuffare le usurate smorfie esilaranti a cui ci ha abituato negli anni. Carlo Buccirosso, dopo essere stato Cirino Pomicino, convince ancora.
Complice una colonna sonora lirica e angelica che richiama alla mente The Tree of Life di Terrence Malick, Sorrentino ci regala il suo film più seducente, sinfonia in crescendo e più movimenti sull’horror vacui imperante nel sacro come nel profano. Con La grande bellezza il cinema italiano torna così sull’Olimpo della settima arte e ad una maturità artistica (e non solo cinematografica) che è pensiero strutturato prima che racconto.
Fonte: http://onestoespietato.wordpress.com
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