“La Grande Bellezza” è il “Viaggio al termine della notte” di un Servillo che passeggia disilluso nel sole caldo di una Roma idilliaca che fa da sfondo ad un palco su cui si agita la miseria, portata all’apoteosi, dei meschini alto borghesi di questa Italia, di questo mondo globale in profonda crisi economica e sociale.
Sorrentino non ha pietà dei suoi personaggi e ce li propone nudi, goffi, grotteschi e volgari nella loro opulenza che è solo ostentazione dell’inutile. Nessuno tra questi “uomini vuoti”, per dirla alla Eliot, può sottrarsi al giudizio sprezzante del regista che li ha creati: figure senza forma, ombre senza colore la cui forza è paralizzata da gesti privi di moto.
Eppure le prime scene sono un affresco di quella che Celine (citato in maniera ridondante nel film) definirebbe “fuga di massa verso l’assassinio di gruppo”: caos e movimento, corpi che disinibiti dalle droghe e dall’alcol si intrecciano senza toccarsi mai davvero in una dimensione animale e irrazionale confusa da tanti, troppi colori. Proprio questo continuo ostentare vitalità non è altro che un ripetere a sé e agli altri che si è morti dentro e non c’è più speranza: puoi immortalare i lineamenti del tuo viso ogni giorno con una foto, ma la vita ti sfugge. O meglio, sei tu che te la sei lasciata sfuggire, ma dov’è la bellezza?
Servillo e gli altri, incastrati nei loro personaggi, tanto da sembrare interpreti e giudici supremi delle loro stesse interpretazioni, sono immersi nella bellezza affascinate e piena di una città eterna – talmente spettacolare da far morire di piacere uno dei tanti turisti nelle prime scene immerse in una musica barocca – ma vagano senza meta nella notte sfrenata della loro terza età.
Cercano la bellezza, o meglio, il sublime che li elevi dal rango di borghesi arricchiti a osservatori di un’arte in cui “quel che interessa in un quadro venga collocato sullo sfondo, nell’inafferrabile, là dove si rifugia la menzogna, questo sogno colto sul fatto, unico amore degli uomini” (Celine) e perciò li inganna, lasciandoli affogare sempre più nei fumi delle proprie vanità di uomini e donne frustrati nell’incapacità di vivere.
Tutti presi dalla tensione verso il ritorno a ciò che non sono più nel salotto di un amorevole chirurgo plastico, o nelle feste pettegole in cui il cicaleggio delle signore è finalizzato al reciproco compatimento nell’autocelebrazione. Ma c’è la possibilità di un risveglio? La sala ormai vuota e raccoglierà quelle vanità appisolate con un drink in mano? Il rumore si fermerà all’improvviso e si troveranno confusi e assordati? O si accasceranno mentre quel rumore continua imperterrito ed indifferente?
A questi uomini vuoti la fine non sembra interessare più di tanto: nella loro pienezza insulsa, dove la bellezza non c’è ed il sublime è eclissato, quello che conta è che Jep Gambardella, o chi per lui, li abbia invitati alla sua festa e che persino ad un funerale si reciti magistralmente la parte degli addolorati e poetici uomini vissuti interpreti di un moralismo bieco e scialbo, incuranti della gioventù che si trovano a portare in spalla chiusa in una bara perché “è già andata a morire in capo al mondo nel silenzio della verità che è un’agonia che non finisce mai”(ancora e sempre Celine).
Tutto il film è un citare altri, auto compiacendosi di questo talento nell’usare parole già sentite per esprime sensazioni e frustrazioni in presenza, con la scusa di voler rappresentare un mondo corrotto, depravato e perverso, di product placement malcelato. Autoreferenziale, Sorrentino si lagna amaramente del mondo che ci circonda e che ci avvolge senza tregua. Un film, uno stillicidio, per raccontare il viaggio mentale di un sessantacinquenne disfatto che, deludente, ha finito per deludere anche se stesso: la purezza è perduta e rimane solo nel ricordo proustiano di un amore giovanile che ha i colori di un mare che fa da soffitto alla camera in cui si rifugia Jep al mattino dopo i bagordi confusi e confusionali delle sue notti.
Scrittore di un romanzo solo, frustrato quanto e come gli altri, incattivito dal piccolo universo asfittico che l’ha tanto viziato, è colpevole quanto il latitante che gli abita accanto di aver contribuito all’avanzata verso l’oblio di questa città dell’apparire. Passeggia con Ramona (Sabrina Ferilli) una spogliarellista malata, anche lei compagna di un viaggio senza meta alla ricerca della bellezza, nella Roma degli eroi, antica, seducente, ma lontana dai nostri giorni che sono invece di falsi eroi e falsi profeti. Poi Romolo (Carlo Verdone), che cerca giustificazioni al suo insuccesso: non è che “Roma fa perdere tempo”, è lui che tempo per scrivere non ne ha voluto davvero impiegare.
Questo dovrebbe ammettere. Romolo torna al paesello di provincia dal quale era venuto, perché la Roma delle attricette cocainomani, delle soubrette in disfacimento psicofisico, degli impresari cialtroni per lui è troppo, o, forse, troppo poco. Tutti i personaggi si contraddicono, mai coerenti a se stessi, obbediscono a sparuti imperativi categorici: non tacere mai, convincersi che è giusto ciò che è, non ascoltare gli altri, giudicare. Nessuno mai comunica veramente, nessuno mai sa cosa stia facendo e perché, non ascoltano neanche se stessi e, soprattutto, giudicano senza giudicarsi mai.
C’è posto anche per la Chiesa nel turbine mondano della Roma-bene: un cardinale (Roberto Herlitzka) interessato alla gastronomia piuttosto che alla spiritualità, una presunta santa, ascetica, ma con tanto di impresario, per rappresentare l’eccesso opposto all’opulenza alto borghese che trasuda saccenza nei suoi monologhi di fatto sempre citazioni di qualcun altro. Tutti vorrebbero sparire insieme alla giraffa che Sorrentino fa uscire dalla macchina da presa come il mago dal cilindro, ma restano dove sono: in questo film la speranza del cambiamento non c’è, la crisi è insuperabile e niente c’è mai stato né ci sarà tranne quello che non può più tornare, come l’odore delle case dei vecchi, odore caro al Jep che c’era prima, ora sepolto da strati di perbenismo, superficialità, ormai in affitto come i nobili decaduti che si comprano per una serata a duecentocinquanta euro a testa più le spese.
Con un nostalgico ritorno al passato del protagonista, Sorrentino ci avverte che la bellezza e la vita sono offese e fuggono umiliate senza speranza di trovarle nel presente o nel futuro. In questa prospettiva non resta che arrampicarsi sugli scogli della gioventù e farsi illuminare dalla luce di un vecchio faro sulla strada dei ricordi.
La vita però non si costruisce solo a partire dalle radici, importanti, è vero, per ancorare l’albero alla terra fertile, ma nel tronco e nei rami scorre la linfa che copiosa bagnerà i fiori delle nuove primavere e, “visto che invocare i posteri è parlare ai vermi” (ancora Celine), converrà piuttosto preoccuparsi dell’adesso e concimare bene quelle piante, magari potarle se sono un po’ vecchie. Semmai prendersi cura delle proprie vite e non lasciarsi incantare troppo dalla nostalgica e pessimistica visione di Sorrentino: la Grande Bellezza c’è, non viene elargita a piccoli sorsi e non è certo detto che tutto attorno sia illusione e che ci si debba adeguare allo stile dell’alta borghesia ben pensante. Quella che si diverte con lanciatori di coltelli e che fa languire le città eterne affidando le chiavi dei palazzi più belli a pochi eletti celandone le ricchezze ai più.
Provate a smettere di recitare la vostra vita come se fosse un reality show e cominciate a vivere davvero perché niente è più reale della vita e, soprattutto, “non restatevene seduti, incantati, a guardare le dame del caffè, tutti fieri d’aver fatto risuonare le vostre saccenti universali ed utili verità” come sembrano fare in maniera corale attori e regista di questo film, e non fidatevi quando vi dicono che “ bisogna scegliere tra morire o mentire” (chiudiamo con Celine, tanto caro a Sorrentino): la scelta è cambiare, ma cambiare davvero!
Written by Irene Gianeselli