Il buio che sovrasta la luce, il vuoto che predomina sul pieno, l’onirico che prevale sulla coscienza.
Questa, in estrema sintesi, la lezione del barocco italiano.
Ed anche, in estrema sintesi, la più immediata sensazione evocata da La grande bellezza, il film di Paolo Sorrentino fresco vincitore dell’Oscar come miglior film straniero, definitivamente entrato nella storia del cinema.
Il fantasma di Jep Gambardella (Toni Servillo) che si aggira per le vie e i palazzi di Roma non è solo la dolente rappresentazione di un’umanità vuota e senza più alcun riferimento, ma soprattutto il centro di una lunga riflessione estetica e simbolica che, attraverso l’Italia e la suo presente indefinito, arriva al cuore dell’umano vivere.
I palazzi nobiliari di Roma le strade, i monumenti che vengono dal tempo, le chiese, le statue sono il palcoscenico muto, distante ma incombente, su cui si snoda una babele di maschere evanescenti, fragili, vuote. Giornalisti mondani, attori in cerca d’autore, parvenu, politici corrotti, alti prelati senza una briciola di spiritualità, nobili decaduti ridotti a comparse, donne e uomini alla ricerca dell’eterna giovinezza (= botox)….
Sorrentino dirige alla sua maniera, con eccezionale virtuosismo, entrando pesantemente in scena con una macchina da presa che si muove instancabilmente, fluida e sottile; una cinepresa che rotola, si trascina, si contorce, si ribalta, indaga, s’ inoltra, esplora, dipinge, con un tocco ora felliniano (l’onirica e simbolica comparsa di giraffe, fenicotteri, un’atmosfera talvolta magica e avvolgente), ora viscontiano (gli interni raffinati ed eleganti ma gelidi).
I personaggi rappresentati sono molto meno che macchiette: appaiono e scompaiono senza lasciare traccia, senza suscitare una sola emozione, perduti nel loro stesso nulla.
Bravissimi gli interpreti, a cominciare da un Toni Servillo cinico e disincantato, dolce faccia di bronzo, in bilico tra la morte imminente e la vita sognata e fuggita; poi una splendida Sabrina Ferilli nel ruolo coraggioso e disinibito dell’ultra-quarantenne che esibisce il proprio corpo nella disperata impresa di coltivare l’illusione dell’eterna seduzione; un Carlo Verdone, dolce e ingenuo attore teatrale alla ricerca di una parte e di un amore che lo mantengano in vita.
L’amore e la morte, il vuoto e il pieno, la bellezza e il disfacimento, la luce e l’ombra, il teatro e la vita, il sogno e la realtà.
Una disperata ricerca di tempo e vita.
“Arriva la morte, ma c’è stata la vita.”
Eccome se c’è stata.