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“La grande bellezza”, tra il già visto e l’invisibile

Creato il 10 giugno 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

 

Esistono territori in cui la parola è incapace di esprimersi e sono i luoghi in cui il cinema può trovare la sua forza più originale. Il poeta William Blake ci ricorda che l’amore è uno di quegli ambiti:

Non cercar mai di dire il tuo amore| Amore che giammai può essere detto | Perché il vento gentile trascorre | Silente, invisibile

E lo stesso Sorrentino non ignora l’esistenza di queste zone di esclusione della parola e, infatti, al personaggio della suora santa fa dire : “la povertà non si racconta, si vive”. Ed è proprio in quell’istante che Sorrentino tradisce la verità che la suora afferma, utilizzando la didascalica parola per esprimere ciò che andava mostrato e non spiegato (“un’opera d’arte che contenga teorie è come un oggetto cui non sia stato tolto il cartellino del prezzo”, diceva Proust).

Partirei da questo “tradimento” per leggere il film di Sorrentino perché mi pare che il limite più evidente è la difficoltà a trovare il registro con cui esprimere il piano concettuale della sceneggiatura. Il tono prevalente del film è drammatico-satirico, funzionale a descrivere una città ed un blocco sociale in patetica decomposizione, i cui protagonisti si agitano miserevolmente sui loro ricchi palcoscenici marcescenti, ispirando glaciale e ridicola pena, senza provocare alcuna empatia. Tuttavia, Sorrentino vuole mettere in contrasto questo corpo putrefatto con la sublime poesia dell’arte, della verità e del passato. E per esporre quest’altro versante prova a raggiungere un registro lirico che gli sfugge quasi completamente, producendo un urticante contrasto narrativo tra toni che si squalificano a vicenda, togliendosi credibilità.

Anche sul piano semantico si riscontra una difficoltà a controllare i concetti che, oltretutto, appaiono fortemente in ritardo rispetto all’evoluzione della società.

Si scorge la necessità di denunciare la vacuità di un’élite politico culturale che, pur appartenendo alla borghesia o peggio alla decrepita nobiltà, ha militato sotto le bandiere dell’estrema sinistra producendo opere culturali mediocri che hanno avuto visibilità solo grazie all’autoreferenzialità di questo blocco moralmente “corrotto”. E’ di tutta evidenza che questa élite è esistita e che alcuni suoi esponenti sono ancora in circolazione ma la loro essenza è stata smascherata già negli anni ’70, molti di loro negli anni ’80 hanno trovato ospitalità nelle illusorie posizioni moderniste craxiane e negli anni ’90 alcuni sono addirittura traslocati nella destra berlusconiana sotto fantasiose e insignificanti etichette politologiche. L’ultimo sparuto gruppo di intellettuali radical chic ha vissuto un effimero tramonto nell’era bertinottiana di Rifondazione ma sono ormai cinque anni che è scomparso dal parlamento questo partito autodistruttosi nelle sue velleità modernizzatrici. Dunque, davvero, non si capisce l’utilità di aggredire un morto in avanzato stato di decomposizione. Guardando la scena della stupida performer che finge di spaccarsi la testa contro un’antica costruzione romana, correndoci contro nuda ed essendosi tatuata tra la peluria pubica tinta di rosso una falce e martello, si prova un senso di spiazzamento, chiedendosi a chi alluda con questo disvelamento che negli anni ’70 sarebbe stato geniale (Pasolini lo fece nel ’68), negli ’80 intelligente, nei ’90 in ritardo, nei ’10 del 2000 incomprensibile ed oggi solo imbarazzante.

grande bellezzza 2

Sorrentino prova a delineare l’antagonista politico-culturale di questo blocco e lo individua in parte negli strati genericamente popolari (la spogliarellista malata) ed in parte nelle persone sinceramente spirituali (la suora santa). Ma anche in questo appare drammaticamente in ritardo. Gli strati genericamente popolari è da decenni che non sono più in grado di contrapporre una visione alternativa e di cambiamento del mondo. Questi sono permeati dai miti e dalle illusioni televisive (si pensi a Reality di Garrone) e hanno avallato decenni di degrado berlusconiano. Gli ampi strati popolari sono in piena crisi di identità di classe e, pertanto, non hanno forza propulsiva per imprimere una critica e un cambiamento reale della società. La suora santa è la pedissequa trasposizione cinematografica di madre Teresa di Calcutta, divenuta un’icona pop che i media dominanti hanno assorbito ed utilizzato da decenni. E’ di tutta evidenza che, pur volendo riconoscere a madre Teresa la più totale buona fede, il suo messaggio è stato completamente riciclato dal sistema e reso sterile e privo di potenziale rivoluzionario. Purtroppo, la superficialità con cui viene identificato questo antagonista positivo non può non far intravedere una similitudine con la grossolanità d’analisi sociale manifestata spesso da Virzì, che in modo ricorrente indugia in facili e logori schematismi.

Da più parti si è giustamente ravvisato un nesso con La dolce vita di Fellini. Infatti, oltre alla similitudini tra Jep Gambardella e Marcello, il senso dell’operazione sorrentiniana non è dissimile da quello di Fellini. Ambedue ambiscono a restituire un quadro di un contesto sociale attraverso lo specchio fornito da Roma ma i tempi scelti sono fatali per il nostro contemporaneo e a tutto vantaggio per il maestro. Questi descriveva nel 1960 la marcescenza di un segmento sociale che s’era appena insediato sul palcoscenico nazionale e fino alla metà degli anni ’60 avrebbe continuato a crescere insieme al boom economico che trasformava l’Italia. Nonostante fosse in presa diretta con gli eventi Fellini vide con chiarezza il carattere vacuo e mortifero di quella élite e non a caso chiude il suo film su una spiaggia del litorale dove una manta morta sta marcendo e separa l’ingenua e vitale ragazzina Paola dal “corrotto” giornalista Marcello. Invece, Sorrentino, nel pieno di una crisi economica e morale che accelera verso il baratro, inspiegabilmente riesce a trovare l’afflato verso una speranza di rinascita spirituale raffigurata da uno stormo di fenicotteri rosa che sosta sul terrazzo del protagonista. Ma, davvero, nel mondo reale non si scorge nessun motivo per guardare con fiducia a tanta bellezza e neppure il film sopperisce poeticamente alle mancanze del reale, rendendo apodittica questa raffigurazione che provoca smarrimento.

Per concludere, si conferma quanto già ravvisabile in This must be the place ovvero una difficoltà di Sorrentino nel maneggiare i macro temi sociali, politici e culturali che necessitano di un’acutezza e ampiezza di visione che il nostro autore ha ben dimostrato ma solo nella dimensione dell’indagine individuale e sentimentale.

Pasquale D’Aiello


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