Il libro descriveva come sarebbe stata la vita nel Duemila. A quel tempo quella data incuteva terrore o spropositate speranze.
Gli aeroplani, le strade, i treni, i vestiti, le case, le navi, tutto. Disegnatori colmi di ottimismo, propugnatori indefessi dell’infinita capacità umana di creare, apostoli del progresso inarrestabile, hanno costruito una fabbrica di stupore, un’enciclopedia dell’illusione. Mi ricordo e constato.
Niente città anulari orbitanti, ma solo qualche vecchia stazione di stampo littorio, venduta in prelazione a qualche antico parente di ferroviere. Niente superstrade elevate al cielo percorse da automobili a reazione, niente case a bolla sospese nell’aria. E niente giardini subacquei, miniere d’oro marziane; di teletrasporto e viaggi stellari neanche a parlarne. E niente pace universale. E poche facce ridenti in ogni parte del mondo.Non me l’aspettavo, non a sette anni anni (e nemmeno a venti), che quell’album si sarebbe rivelato alla fine una gran balla. Io gli ho creduto finché ho avuto forza di immaginarmi il futuro come la meraviglia di tutte le meraviglie. Che delusione. Che peccato esserci arrivato solo per passeggiare solingo in una domenica mattina di settembre.
E intanto baexinne e le case sudano acqua dalle facciate piene di tromphe d’oeil. Dalle finestre spalancate si sente qualche gracchio di radio malsintonizzata.
Forse in ogni casa c’è memoria di quel libro di palle spaziali. E c’è delusione, e smarrimento per la grande bugia in cui tutti abbiamo gioito nel credere...