La grande manoeuvre

Creato il 22 dicembre 2011 da Albertocapece

C’era una volta il panino. Da  mangiare in un breve intervallo e che ancora sapeva d’infanzia: si quello al salame o al prosciutto. Poi venne la Milano da bere che era anche da mangiare e pure parecchio, così il termine panino pian piano scomparve perché  aveva un che di frugale e stonato, una nota da busta di carta come cappello e cominciò ad essere omesso: comparve dal fulgore del craxismo il crudo e caprino, capostipite di una grande famiglia  di crudi e qualcosa, ma anche di una fulminea evoluzione che comprendeva il brie, la bresaola, la foglia d’insalata, il peperone, la melanzana, un insieme di salse che era meglio essere daltonici e finiva nella sublime invenzione del letto di rucola che poteva sembrare cibo per cavalli normanni, ma che era diventato il letto dove si adagiava un po’ di tutto. Soprattutto la cattiva coscienza e le illusioni. Il guardare dall’altra parte mentre quelle foglie resistenti venivano masticate rimanendo appiccicate dappertutto come fossero carta da parati .

Anche tutto questo oggi sembra archeologia: il panino rimane panino, ma  ha bisogno di un surmenage di parole e di fantasiose espressioni per essere apprezzato e aderire al complesso olimpo di sciocchezze gastronomiche e alimentari che dagli anni ’80 ci hanno preso per mano durante l’inverno del berlusconismo. Certo il popolo man mano regredisce verso il toast e la ciabatta, ma chi se lo può permettere non può farsi mancare una “Baguette  con farina di grano tenero Minoterie du Trieves,  con culatello di Zibello e sale marino integrale di Mothia”  Volete mettere? Certo la Minoterie du Trieves è una comunissima industria che produce farine esaltate dal francese, il sale di Mothia è un comune sale integrale e il culatello di Zibello sembrerà una cosa particolarissima, ma è semplicemente la denominazione ufficiale del culatello. Che è poi un prosciutto.

Potreste fare a meno di ”Pane e robiola di Agrilanga di solo latte crudo di caprette camosciate alpine”. Sa  molto di di pane e stracchino, ma dove le mettiamo le caprette camosciate, alpine mi raccomando perché dio non voglia che crescano in Appennino? O potreste davvero privarvi di  ”Doppio hamburger cento per cento di razza bovina piemontese e farine macinate a pietra dal mulino di Marino” anche se dovete sborsare 15 euro? Potreste mai più mettere in bocca un cereale che non sia stato passato sotto la pietra? Del resto persino  McDonald,  quel tempio dove il turibolo di un misterioso olio per le patatine sparge incenso per un chilometro attorno, si è evoluto e Gualtiero Marchesi, come Robespierre, ha introdotto la rivoluzione di un po’ di spinaci e melanzane e soprattutto nomi musicali.

Ci siamo arrivati molto dopo i francesi che uno spiedino di volgarissimo pollo spruzzato col limone sono capaci di chiamalo Grande brochette de volaille parfumé au citron de Medoc  o che sono in gradodi indicare in autostrada tre platani tre con un cartello che recita “Les fameuses platanes de Provence”. Il segreto è di dare un’aria di rarità e desiderabilità inconsistente anche alle cose più banali ed è uno dei tratti caratteristici del “moderno” che ormai deve vedersela con una eccezionale povertà umana e sociale, costretto a stimolare il piccolo egoismo ottuso di chi fa dell’avere un fatto di suprema distinzione o di trovare artificiose differenze, più parolaie che altro, in un mondo sempre più omologato e avido.

Ecco, fossi stato in Monti, invece di promettere in un fumoso domani lo sviluppo (i romani già sapevano tutto: spero, promitto e iuro, vogliono l’infinito futuro, come sappiamo dalle medie) avrebbe potuto chiamare la manovra Grand train des mesures pour la jeunesse des vieilles et la souplesse du travail avec sauce de banque au vin de Bce. Certo saremmo più felici, convinti di essere in un club esclusivo, proprio come caprette camosciate. Anzi, ormai scamosciate.


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