Mentre l’Occidente gioca a dadi per decidere il da farsi, scherzando col fuoco e con le circostanze, Putin fa la sua partita a scacchi e lascia tutti di stucco con mosse finemente calcolate. Gli Stati Uniti, i loro alleati Europei e gli uomini della Junta di Maidan sono finiti in un cul de sac accelerando il conflitto armato contro il sud-est indipendentista ma scontrandosi con la fiera ostilità delle popolazioni locali.
L’operazione avrebbe dovuto essere breve e risolutiva. Il golpisti, assistiti dai loro alleati atlantici, erano convinti di farcela in tre giorni ma l’opposizione degli abitanti del Donbass, la riluttanza dell’esercito ad attaccare, le defezioni dei militari e dei corpi antisommossa Berkut, i rinforzi crimeani e ceceni, hanno svelato le velleità di Turcinov e compagnia assassina. Nemmeno l’aver armato fino ai denti i gruppi settari dell’estrema destra di Pravi Sektor, mettendo alla loro testa miliziani di Washington, è stato utile all’infame causa, anzi questa sciagurata iniziativa ha prodotto il massacro di Odessa con un numero imprecisato di morti che grida vendetta.
Quest’ultima azione avrebbe dovuto trascinare i russi nel conflitto ma Mosca, anziché cambiare posizione, ha risposto con gli strumenti della legalità internazionale, emettendo un rapporto sulla violazione dei diritti umani in Ucraina che ha trasformato Kiev, e i suoi sostenitori stranieri, in un branco di delinquenti intenti a perpetrare un genocidio nel cuore dell’Europa.
Ieri, con l’idea per una road map di pace e la proposta ai resistenti di rinviare il referendum sull’indipendenza del 11 maggio Putin ha messo con le spalle al muro i suoi avversari. La palla è stata rilanciata nel quadrante opposto e se la guerra continuerà la responsabilità ricadrà solo su di esso.
Dopo la risoluzione siriana sulle armi chimiche che, a detta di tutti, ha rappresentato un capolavoro diplomatico di Putin, costui lancia l’ennesima ancora di salvezza ad Obama il quale, una volta di più, dimostra di procedere con scarsa conoscenza delle situazioni sul campo e con una politica estera aggressiva e caotica già dimostratasi deleteria e fallace su molti teatri regionali.
Naturalmente, commentatori ed analisti nostrani non hanno capito un granché ed hanno attribuito la svolta distensiva del Cremlino alle sanzioni economiche degli Usa e dell’UE che starebbero mettendo Mosca all’angolo.
Gli oligarchi avrebbero spinto Putin a ripensarci per non rinunciare a molti affari. Questa gente, in fregola di giudizi avventati, dovrebbe mettersi d’accordo con la propria coscienza, infatti o Putin è un uomo solo al comando, un dittatore “privo di senso della realtà”, come hanno spesso ripetuto per disprezzarlo, oppure è il leader di una democrazia, anche se molto particolare, che quando valuta ciascuna opzione sul tavolo deve tener conto degli equilibri e degli assetti di potere nel suo Paese, elaborando una sintesi delle varie istanze. Nel primo caso non ci sarebbe pressione capace di modificare la sua volontà, nel secondo si dovrebbe finalmente accettare il fatto che Putin non è un tiranno, un one man show, come scrive anche Tramballi sul Sole 24ore, ma l’espressione terminale di un gruppo dirigente con una sua visione del mondo e dell’evoluzione dei rapporti di forza globali sui quali prova ad incidere con una o più strategie. È all’interno di questo drappello di decisori che si vagliano le scelte estere ed interne russe. Come accade in qualsiasi altro contesto statale sedicente liberale. In verità, Putin è giunto a questa possibilità di fuoriuscita dal conflitto con la mediazione dei tedeschi, incrinando la coalizione Occidentale. Il vertice al Cremlino con Burkhalter, Presidente dell’Osce, ha permesso di stringere sulla condivisione di una roadmap di pacificazione in quattro punti: 1)cessate il fuoco, 2)de-escalation,3)dialogo,4)elezioni.
Adesso la risposta sta agli Usa per i quali Putin è diventato un grande amico, non corrisposto, un leader intelligente e ragionevole che li tira fuori dagli innumerevoli guai causati dal peggior Presidente della loro storia.