La grande scommessa
di Adam McKay
con Christian Bale, Steve Carell, Ryan Gosling, Brad Pitt, Margot Robbie, Marisa Tomei, Melissa Leo
Usa 2015
genere, commedia
durata 130’
“Se avessi potuto scegliere
tra la vita e la morte,
tra la vita e la morte…
avrei scelto l’America”.
- F.DeGregori -
“Segui i soldi”, ammonisce un vecchio adagio. A voler essere solerti, ai nostri giorni, ciò può voler dire con buona approssimazione, sbattere la faccia contro una delle cosiddette bolle, eufemismo addirittura tenero se non nascondesse, accanto all’ufficialità tecnica e dottrinale che si limita a registrare “le periodiche oscillazioni del Mercato”, la demolizione parziale o totale d’interi settori produttivi con le spicciole esistenze individuali ad essi sottese, nonché - a margine - l’interdizione tanto moderna di vellicare, spesso in modo maldestro, il dizionario per non esprimere concetti chiari e netti, nel caso quello di crisi.In un contesto irriducibilmente grottesco, quanto più o meno consapevolmente suicida, non possono che muoversi figure ai limiti della caricatura e del demenziale, se non fosse che, oltre ad essere reali (nel senso di “in carne ed ossa”), essi hanno dato e continuano a dare una mano non da poco alla tendenza autofaga dell’intera società globale. Del resto, l’assunto stesso - si fa per dire - che sta alla base di uno dei tanti e complicatissimi meccanismi posti nella posizione di pietra angolare del nostro edificio comune, oramai perlopiù finanziario - ben rappresentato nel film da un instabile incastro di mattoncini di legno impilati a scendere dalla loro teorica affidabilità (indicata con una tripla A), fino alla volatilità più effimera (segnata con una singola B) - e cioè il prodotto bancario denominato CDO (ovvero, tenetevi forte, “Collateralized Debt Obligation”) che starebbe ad indicare “un’obbligazione che ha come garanzia un debito”, la dice lunga sullo stato d’ipnosi criminal-puerile-autolesionista in cui, a spanne, tutti siamo incastrati e da cui pare non ci sia verso (e voglia, almeno a giudicare dalla coazione a ripetere dei sedicenti pezzi grossi) di venire fuori. Se puntare sull’idiozia delle masse è sempre un buon investimento, cosa accade se un manipolo d’interessati guastatori di genio scommette contro il sistema (e, in subordine, contro la sicumera bancaria) che lucra su quell’idiozia ? Una follia al cubo, si potrebbe dire, ovvero si da forma a parte delle conseguenze del pantano a composizione mista tra incertezza delle prospettive, precarietà del quotidiano, progressivo inasprirsi del tasso d’impoverimento generale, nel quale si galleggia a tutt’oggi, anno di grazia 2016, ottavo consecutivo di dissesto economico (e non solo per la già traballante Eurozona). Proprio al fatidico 2008 e ai prodromi ignorati/rimossi/sottaciuti, rimonta lo schema di riferimento di “The big short”/“La grande scommessa”, che Adam McKay (dal “Saturday Night Live” alla sceneggiatura di “Ant-Man”, passando per “Step brother”) assieme a C.Randolph assembla a partire dall’omonimo testo di M.Lewis e che con inesorabile coerenza - sul genere di un puzzle/prontuario della truffa intesa come connubio di spregiudicatezza intellettuale, indolenza/sudditanza/connivenza delle istituzioni e incorreggibile predisposizione dell’uomo medio al raggiro travestito da occasione-della-vita ad alto rendimento o da credito piovuto-dal-cielo immune all’apparenza dalla zavorra delle garanzie - organizza intorno alle vicende di alcuni eccentrici con le mani in pasta decisi, in virtù delle montagne di dollari a disposizione (diversi tra loro gestiscono, direttamente o indirettamente, fondi d’investimento), di andare-a-vedere il bluff della solidità del mercato immobiliare, puntando, attraverso l’utilizzo delle non del tutto sondabili circonvoluzioni dell’organigramma del denaro digitale e annessi strumenti, su un suo graduale ma inevitabile tracollo.
All’interno di un mondo - genericamente identificabile con Wall Street - molto compreso di sé, rutilante nelle cifre - mai al di sotto dei sei zeri - cinico nel gergo, insaziabile nelle aspettative, entro cui alligna, in fondo, sempre e solo la vecchia cara avidità, aggiornata ai tempi degli m-status symbol: milioni, macchine, magioni, mangiate, mignotte…, s’agita, a compartimenti stagni, una combriccola di mostri - i personaggi di Bale, Carell e Gosling, in primis - pronta, come niente fosse, a far saltare il banco, senza la minima esitazione, il minimo scrupolo. Il gioco (vincente) di McKay sta nello shakerare a dovere ingredienti di varia natura ma di materia piuttosto pregiata (non ultimo quello per cui di storia realmente accaduta, si tratta) dopo averli dosati in modo da preparare e servire un cocktail tanto alcolico nella gradazione quanto appetitoso alla vista.
In altre parole: fondere dialoghi iper-assertivi e taglienti (a cui non si risponde ma ci si allinea, in ragione delle medesima lunghezza d’onda retorica) ad un montaggio che non concede tregua e ritma al passo di una sua singolare, esotica psichedelia (si viaggia sull’ottovolante di ralenti, stop motion, brevi inserti para-giornalistici, commenti sarcastici verso la mdp. E ironici aggiornamenti circa lo stato-dell’-arte su neri di raccordo; spiegazioni che complicano il quadro d’assieme: sovrimpressioni, didascalie, diagrammi, et.) ed inscrivere affermazioni, colori - spesso sgargianti - e suoni al centro di un’irresistibile cornice supercool (attori strepitosamente rilassati - si noti, per dire il farfugliamento monotono e finto indolente di Bale, analista visionario amante del metal e instancabile batterista-da-ufficio; o la sardonica ira mista a mestizia repressa di Carell, uomo scisso tra il senso di colpa per una tragedia personale di cui si sente responsabile e il desiderio di rivalsa su un ingranaggio, quello capitalistico, che di quella tragedia sembra il corrispettivo su scala esponenziale) che distorce, enfatizza, rende con perversa efficacia seducente (è la pin up Margot Robbie, a mollo dentro una vasca ricolma di candida schiuma e con un calice di champagne ad intrattenerla, a spiegare a noi, poveri scemi, come verremo di lì a poco cucinati dall’azzardo dei subprime), quindi, nella polpa, ancor più amara, la pietanza di un raggiro - sempre lo stesso, sempre quello: l’ultimo babbeo di turno a fissare il nulla smarrito “col cerino acceso in mano” - di proporzioni e conseguenze planetarie (pare che lo scherzo, e la stima vale di sicuro per difetto, ci sia costato qualcosa come cinque trilioni di dollari).“The big short” s’accoda, allora e di buon grado, alle tante requisitorie sul Capitale disseminate qua e là nella cinematografia recente ma spicca per un suo particolare, indisponente disincanto, per il qual distacco con cui traffica attorno ad una deriva più stupida che bieca e che allude ad un’assurdità più vasta di quella che documenta: qualcosa in perenne oscillazione tra apatia, fatalismo, ebetudine e indifferenza, regredita o soprassatura - a questo punto, chissà ? - nelle forme di una fantasmagoria rutilante e irresistibile, come un destino carnascialesco e atroce in cui tutto avviene per fatale trascinamento al solo scopo di riproporsi, di nuovo, domani e poi domani. Fino alla Fine.
TFK