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La Grazia infinita di Philomena

Creato il 02 gennaio 2014 da Ilcirro

Irlanda, 1952. Una ragazza, Philomena Lee, ha un rapporto sessuale con un tipo conosciuto alla fiera. L’amore di un attimo, consapevole e felice, di due giovani. Lei resta incinta: guaio e scandalo, tanto da meritarsi il soggiorno a Roscrea, uno dei tanti conventi di suore dove le peccatrici vengono accolte e redente, ed i loro piccoli svezzati e dati in adozione (meglio sarebbe dire: venduti).

Judi Dence and Steve Coogan in Philomena
Di questa autentica piaga sociale il cinema del Regno Unito si è già occupato più volte, basti pensare all’agghiacciante Magdalene, di Peter Mullan, Leone d’oro 2002. Anche Philomena di Stephen Frears ha concorso a Venezia, quest’anno, vincendo il premio per la miglior sceneggiatura e sfiorando il Leone d’oro, finito poi a Sacro Gra (mah..). Philomena Lee è un tipo tosto: passa tutta la vita a cercare quel figlio svanito nel nulla e, nel proprio nel giorno del suo presunto 50° compleanno, conosce un giornalista BBC, di recente caduto in disgrazia, e quindi disilluso e sconfortato, che decide di riscattarsi occupandosi del caso. Finalmente le nebbie si dipanano e, lentamente, prende corpo un’incredibile vicenda umana, ricca di colpi di scena e sorprese impensabili.

Stephen Frears, monello provocatorio e dissacrante del cinema UK, costruisce come al solito una perfetta macchina narrativa, essenziale e scarna, in cui il consueto tocco graffiante e irriverente lascia spazio ad un complesso intreccio di umorismo e dramma, leggerezza e commozione, dove l’oggetto principale non è tanto la ricerca di un figlio da parte di una madre, ma la madre stessa, la sua Fede incrollabile in un Dio che non è quello venerato da talebani della fede nei conventi o negli istituti religiosi, ma quell’afflato di umanità che alcuni individui hanno nel cuore e che è l’essenza stessa del messaggio cristiano. Quella predisposizione dell’anima che consente a Philomena di affrontare con soavità un autentico calvario umano, fatto di emozioni forti e contrapposte, di gioia e di disperazione, e di uscirne giganteggiando sui resti del passato e sulle persone che le hanno causato tante sofferenze. 

Il tema della Fede e del Perdono è dunque l’asse portante del film, ed è magistralmente descritto ponendo a confronto due diverse personalità: il giornalista freddo, cinico, arrabbiato, che vorrebbe gridare alla vergogna ed esigere giustizia, e la madre, che vive invece il tutto come un dramma personale al quale solo il suo cuore e la sua anima possono porre la parola fine.

Detto dell’impeccabile struttura narrativa di Frears e della bravura del cast, non possiamo che inchinarci reverenti di fronte all’ennesima magistrale interpretazione dell’immensa Judi Dench: eccentrica, naif, leggera, commovente, schietta e struggente; abilissima nel dar vita a una figura contraddittoria, multiforme e complessa, in balia dei sussurri dell’anima ma ancorata alla certezza granitica conferitale dalla sua fede inestinguibile.

Il Leone perduto di Venezia 2013.

Un grande film. Senza se e senza ma.


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