di Michele Marsonet. Da molto tempo Giorgio Agamben riflette su alcuni concetti chiave che si ritrovano nella filosofia di Carl Schmitt. Nel 2010 scrisse “Stato d’eccezione” (Bollati Boringhieri) e ora, presso lo stesso editore, pubblica “Stasis. La guerra civile come paradigma politico”.
La fonte primaria è la celebre opera schmittiana “Teoria del partigiano”, che risale al 1963. In essa il giurista e filosofo tedesco tratteggiò per l’appunto la figura del “partigiano”, il combattente irregolare per eccellenza, che si contrappone agli eserciti normali senza rispettare le regole della guerra tradizionale e non ricevendo, in cambio, il trattamento riservato ai prigionieri quando cade in mano al nemico.
Ci troviamo insomma di fronte all’annullamento del diritto di guerra classico, che impone il rispetto dell’avversario considerato alla stessa stregua del soldato che si batte nell’esercito al quale si appartiene.
Entrano allora in scena categorie nuove come “nemico assoluto” e “guerra assoluta”, nella quale tutto è in pratica lecito. Intento del partigiano inteso nel senso schmittiano è quello di annientare il nemico senza punto curarsi delle norme stabilite. L’annientamento però tocca anche a lui, giacché non può invocare in sua difesa le regole che egli stesso per primo non osserva.
D’altra parte il partigiano non può neppure essere “regolarizzato” in base, per esempio, alle convenzioni dell’Aja e di Ginevra. Se lo si facesse verrebbe meno la sua stessa essenza.
In contemporanea al libro di Schmitt, Hannah Arendt formulò nel suo libro “On Revolution” la tesi della “guerra civile mondiale”, che altro non è se non una guerra scatenata sull’intera superficie della Terra. Un conflitto permanente e privo dei contrassegni dell’umanità, all’interno del quale non è possibile stabilire alcuna distinzione netta e “pulita” tra pace e guerra, tra militari e civili, tra tra nemici e criminali.
Il nemico diventa ipso facto un criminale che non merita pietà di sorta e va appunto annientato e annichilito, dal momento che il suo status di combattente non viene riconosciuto in partenza. La vittoria non può essere parziale ma solo totale, e altrettanto dicasi della sconfitta. Unico obiettivo è quello di sradicarlo e annientarlo. Ne consegue inoltre che le dichiarazioni di guerra non sono più necessarie, vista l’assolutezza della battaglia che attende i contendenti.
Delle idee di Schmitt e Arendt Agamben fa grande uso, riprendendo pure la tesi schmittiana di un nuovo “nomos” della terra, una “politica dello spazio” in cui alle guerre tradizionali dichiarate dagli Stati si sostituisce il conflitto senza regole, in cui i civili giocano il ruolo di gran lunga principale. Perché dunque scandalizzarsi se proprio tra i civili si registrano le perdite maggiori? Si tratta di una mera conseguenza (naturale) della situazione sopra delineata.
E pure l’ombra di Heidegger si staglia netta nello scenario che Agamben tratteggia. Avendo la tecnica conquistato il mondo, a essa è toccato il compito di modificare radicalmente i termini degli interventi militari. Non occorre – come avveniva un tempo – fronteggiarsi sul campo poiché, al contrario, gli effetti “migliori” si ottengono ricorrendo alle macchine (si pensi soprattutto al crescente impiego dei droni, sempre più sofisticati e potenti).
Trascuro qui l’interessante analisi che Agamben dedica alla “stasis”, da lui identificata con la guerra civile che afflisse le città dell’antica Grecia, per concentrarmi sulla valenza che il libro può avere ai fini di una valutazione di quanto sta accadendo ai giorni nostri.
Un quesito è a mio avviso non solo lecito, ma addirittura necessario. E il quesito è il seguente. Fino a che punto possiamo considerare il continuo espandersi del terrorismo (e, ovviamente, in primis quello di matrice islamista) come espressione della summenzionata “guerra civile mondiale”?
In un senso l’analisi funziona, soprattutto rammentando l’enorme coinvolgimento dei civili, intesi tanto come combattenti quanto come vittime inconsapevoli e innocenti di un conflitto scatenato da altri.
La mente corre subito a tante vicende della storia moderna e contemporanea. Si pensi – per fare due soli esempi – ai Vietcong vietnamiti o all’importanza delle formazioni partigiane nella lotta mortale tra tedeschi e sovietici nel corso del secondo conflitto mondiale.
In entrambi i casi, tuttavia, si trattava di partigiani che facevano riferimento a entità statali ben definite e con una precisa ideologia allora in fase di diffusione internazionale: Vietnam del Nord e Unione Sovietica.
Oggi il fenomeno è legato a un risveglio religioso basato su un’interpretazione di un testo sacro che le massime autorità di quella stessa religione considerano errata. E si tratta, inoltre, di un rifiuto totale dei valori e dello stile di vita dell’Occidente, in molti casi coltivato da individui che nello stesso Occidente sono nati o hanno almeno vissuto gran parte della loro vita.
Per quale motivo, quindi, equiparare il terrorismo odierno alla guerra civile “mondiale” adombrata nei testi di Schmitt e teorizzata da Hannah Arendt? In che senso si tratterebbe di una guerra civile diffusa su scala planetaria?
Pur ammettendo la brillantezza dell’analisi politico-filosofica contenuta nel testo, la verità è che gli occidentali non sono ancora riusciti a comprendere del tutto la natura, la portata e, soprattutto, le conseguenze a lungo termine della particolare forma di terrorismo che oggi devono fronteggiare. Ed è questo che, in realtà, preoccupa e spaventa.
Assai più utili risultano a mio avviso le considerazioni di Bernard Huntington ne “Lo scontro delle civiltà”, dove il politologo americano intravide nella difesa delle identità culturali e religiose il vero fattore destinato a caratterizzare il mondo uscito della Guerra fredda.
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