Nel futuro avremo dei soldati robot programmati per uccidere? È una sconcertante possibilità su cui le Nazioni Unite hanno discusso qualche settimana fa a Ginevra. Ho deciso di scriverne perché trovo perturbante l’idea di una guerra combattuta da soldati robot e perché questa mi sembra l’occasione per fare qualche considerazione sulla guerra.
Beh, più che soldati robot questi sembrano innocui giocattoli…
Cosa sono i soldati robot?
I soldati robot sono delle macchine intelligenti in grado di prendere delle decisioni in modo autonomo, senza la necessità di intervento umano: macchine siffatte attualmente non esistono ma è possibile che verranno costruite in futuro, tra venti o trent’anni.
I soldati robot sono macchine che per sparare o per sganciare bombe, a differenza degli attuali droni, non avranno bisogno del comando di un essere umano seduto a distanza di migliaia di chilometri ma potranno valutare da sole se sia opportuno farlo. Nel concreto, si tratterebbe di aerei o di piccoli cingolati e non robot dall’aspetto simile al nostro.
A Ginevra si è discusso se sia il caso o meno di inserire questi robot (il nome tecnico è armi letali autonome) all’interno della lista dei dispositivi non utilizzabili in guerra, come è accaduto ad esempio alle mine antiuomo. Al riguardo vi sono due schieramenti: da un lato c’è chi, come Ronald Arkin, sottolinea come questa tecnologia consentirebbe di avere meno vittime civili e meno danni materiali rispetto a quanto faccia un soldato in carne e ossa e dall’altro c’è chi, come Noel Sharkey, considera che tali macchine userebbero come criterio di azione la riuscita della missione, trascurando aspetti quali perdite umane o esecuzioni di fronte ai civili. Probabilmente, le Nazioni Unite decideranno a novembre.
Zero umanità
Evitando derive paranoico-apocalittiche in cui le macchine sottomettono la specie umana e per cui rimando a splendidi film come Terminator o Matrix e trascurando casi in cui tale tecnologia, permettendo di disinnescare le bombe nemiche, ha salvato la vita a soldati e a civili, quello che vorrei fare qui è ragionare sul senso psicologico di una guerra in cui si usano macchine che uccidono.
Il primo punto mi pare sia la relativa facilità con cui un politico potrebbe decidere di entrare in guerra, forte di un esercito che comprenda anche soldati robot. Nessuno piangerebbe la distruzione di un soldato robot, di una macchina, sebbene costosissima, e decidere di entrare in guerra potrebbe per un politico essere una scelta non troppo impopolare. Se a morire non sono i tuoi soldati ma solo i soldati nemici, è come se la guerra la si facesse solo un po’, quasi si fosse dentro un videogioco. La guerra però resta reale, soprattutto per chi muore e per chi piange i morti.
Uccidere a distanza è del resto un obiettivo bellico che l’uomo ha sempre avuto, già quando inventò l’arco. La distanza permette di non vedere quanto la persona uccisa sia simile a noi, permette di non vederne il dolore. Le macchine possono dare l’illusione che la guerra sia una cosa pulita, un esercizio di strategia e tattica. E privano chi uccidono della dignità dell’essere ucciso da un proprio simile. Così, il nemico non è più un essere umano e chi ha deciso una guerra e chi combatte si sentono meno in colpa. Con le dovute differenze quantitative, la disumanizzazione è alla base dei pregiudizi e di forme di aggressività quali il bullismo e il razzismo.
C’è poi la questione della responsabilità nel caso di errori: ci saranno processi per i soldati robot? Per non dire della tecnologia che pervade ogni angolo della nostra vita e senza la quale ormai sappiamo fare ben poco.
Apollo e gli altri
Collocando il nemico a distanza, la guerra con i soldati robot incarnerebbe l’idea apollinea di guerra, per dirla con Hillman, e forse è per questo che una guerra siffatta esercita su alcuni un fascino potente.
Hillman, illustre psicologo analista junghiano, ha dedicato alla guerra un volume intero, Un terribile amore per la guerra, e sottolinea come, per spiegare la guerra, gli antichi ricorressero a quattro divinità – Marte, Atena, Mercurio, Apollo. Nella guerra di Apollo ci sono “le armi lontano dal fronte, il fronte stesso dissolto, mentre la guerra si trasferisce in cielo, sui satelliti, nello spazio, trasformata dall’immaginazione apollinea in visioni nucleari splendenti più di mille soli” (Hillman, 2005, p. 116). È una guerra ottimizzata, quasi elegante, ma le persone che muoiono sono persone in carne e ossa, anche se a farle fuori sono dei soldati robot killer.
Matrix, o degli uomini usati come batterie.
Perché la guerra
Viene da chiedersi cosa spinga l’umanità – unica specie sul pianeta ad avere questa propensione – a farsi la guerra da sempre, al di là di motivazioni politiche, economiche, demografiche e al di sotto di tonnellate di bugie.
Hillman ricorda il film Patton generale d’acciaio per sottolineare il piacere che alcuni trovano nella guerra. Patton sta passeggiando per il campo di battaglia a combattimento finito. Immerso in un panorama devastante, Patton solleva il corpo di un ufficiale ferito ed esclama: “Come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti, lo amo più della mia vita”.
Che la guerra soddisfi un bisogno interno di cui non siamo necessariamente consapevoli lo aveva detto già Freud che parlava di pulsione di morte. Una riflessione più ampia è però quella di Franco Fornari, geniale psicoanalista italiano. Secondo Fornari, la guerra inventa un nemico reale, esterno, da uccidere e questo serve a salvarci da un nemico che abbiamo dentro di noi. Dice Fornari, noi attribuiamo al nemico le colpe per le nostre sofferenze e la colpa per l’odio che nutriamo verso chi amiamo, l’angoscia di morire e quella che chi amiamo muoia. In questo modo, l’altro diventa una minaccia per noi e per le persone per noi importanti, una minaccia da contrastare con ogni mezzo.
Concludo in modo sconsolato, con una poesia di Quasimodo sulla mediocre evoluzione etica fatta dall’essere umano nel corso dei secoli. La poesia è Uomo del mio tempo.
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
- t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
- Andiamo ai campi. – E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
Per approfondire
Fornari F. (1966). Psicoanalisi della guerra. Feltrinelli.
Hillman J. (2005). Un terribile amore per la guerra. Adelphi.
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