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La guerra del vino

Creato il 25 gennaio 2011 da Cultura Salentina

La guerra del vinoSettembre 1957, nord Salento: «il popolo si infiammava facilmente all’epoca!» sbotta mio padre sollecitato dalle mie domande. Ho appena finito di leggere La guerra del vino, e appena finito di scoprire che ingiustizie, soprusi e, purtroppo, anche eccidi perpetrati da uomini delle istituzioni italiane hanno fatto parte del nostro vissuto e del nostro territorio in tempi molto recenti.

Un bel saggio quello di Alfredo Polito e Valentina Pennetta, autori de La guerra del vino, ovvero una finestra aperta sulle vicende tragiche che videro protagonisti i cittadini di alcuni comuni salentini alla fine dell’estate del 1957, quando migliaia di contadini (ma non solo), impauriti dallo spettro della fame, diedero sfogo a veementi proteste contro i simboli dell’oppressione incarnati da istituzioni statali e caste di sfruttatori, ieri come oggi sempre presenti nella società italiana.

La vicenda ebbe un epilogo tragico: iniziata in sordina nel comune di Torchiarolo, infiammò immediatamente anche i paesi limitrofi, San Pietro Vernotico, Cellino San Marco e infine Sandonaci, dove l’intervento spropositato di nuclei di scelbini provocò la morte di tre giovani innocenti, la cui unica colpa era stata quella di trovarsi sulla traiettoria delle pallottole sparate da pochi scellerati guidati da sempre onnipresenti mediocri. L’episodio scatenante avviene nel tardo pomeriggio del 9 settembre, quando un drappello di poliziotti entra a Sandonaci dalla via Cellino:

Mentre gli agenti sfilano Fiorentina Fai è affacciata alla porta di casa e grida: “Vagabondi”. Rateni scende dalla 1100 e ordina di prenderla e di caricarla sulla camionetta. La gente circonda il camion, urla e tira contro la polizia tutto ciò che può, anche gli zoccoli, chiedendo la liberazione della donna.

E’ a questo punto che si scatena il disastro; i cittadini vivono quella ingiustizia come un affronto e reagiscono come possono sommando indignazione a disperazione. Sono giovani, siamo in un’epoca, l’immediato dopoguerra, in un meridione composto da famiglie tradizionalmente numerose, famiglie che generano migliaia di figli, figli che adesso sono tutti lì, pronti come ogni giovane di ogni epoca e luogo a ribellarsi e infuocarsi contro le nefandezze dei potenti. Si scatena una sassaiola, che a sua volta scatena la reazione di alcuni agenti che sparano ad altezza d’uomo. Sparano a vanvera, senza un vero obiettivo, finendo per compiere un’ingiustizia anche peggiore del semplice arresto di Fiorentina Fai. Finiscono con l’ammazzare tre giovani, una ragazza e due uomini, che nulla avevano a che fare con le proteste, un film già visto tante volte, un film che si è ripetuto pari pari anche in questi giorni nella speranzosa terra d’Albania.

La tragica vicenda ha, anche a distanza di cinquant’anni, un suo incontestabile valore storico; ma leggere questo saggio ha il pregio oggi di catapultare il lettore in un’epoca ormai distrutta dalla cultura contemporanea, un’epoca segnata da una società contadina con il suo complesso di usi, costumi, comportamenti sociali, che appaiono, a quasi un secolo dalla violenta annessione piemontese, ancora lontani e ineffabilmente divisi da quel regime culturale, evidentemente imposto dalle necessità di un’Italia unita, ma ancora ben lungi dal dirsi completamente condiviso anche dalle popolazioni meridionali.

Non sarà un caso che, complici le sempre utili divisioni ideologiche, di queste stragi ne vennero perpetrate molte nei territori meridionali dell’epoca, sempre stragi a carico di cafoni, quegli stessi “cafoni” che consci dei quotidiani soprusi culturali e materiali che giornalmente erano costretti a subire da padroni e governi di padroni, hanno preteso dai propri figli il conseguimento di quella formazione scolastica che loro non avevano potuto avere, ben consci che solo in quel modo avrebbero potuto liberarsi dalle catene di una subalternità geografica ancora ben lontana dal dirsi risolta. Diremo grazie a loro, noi che oggi siamo in grado di difenderci dai rozzi rigurgiti leghisti.

Erano le dieci questa mattina quando siamo arrivati all’ingresso dell’ospedale Di Summa qui a Brindisi dove si trovavano e forse si trovano tutt’ora le salme di due dei tre uccisi di San Donaci. C’era tutt’intorno a noi un silenzio agghiacciante e rari passanti percorevano frettolosamente la strada assolata. Poi quel silenzio è stato rotto all’improvviso da una nenia dolce e straziante ad un tempo. Sul marciapiede di fronte con lo sguardo fisso alle finestre dell’ospedale c’era una vecchia vestita di nero e di cui non c’eravamo accorti prima che, facendo lenti gesti con le mani, implorava, rivolgendosi a tutti e a nessuno, di poter riabbracciare per l’ultima volta almeno il cadavere del suo figliolo. Era la madre di Mario Calò. (Riccardo Longone inviato de l’Unità)


Un particolare ringraziamento a Valentina Pennetta e Alfredo Polito autori di questo splendido saggio e ad Angelo Arcobelli che me ne ha fatto gradito dono.

A. Polito-V. Pennetta, La guerra del vino, Piero Manni Editore, 2010, pagg. 133.


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