Philippe Baumard [nella foto a destra], professore all’École polytechnique di Parigi e presidente del Consiglio scientifico del Conseil Supérieur de la Formation et la Recherche Stratégiques, offre nel passo seguente la sua interpretazione della guerra dell’informazione. Il brano è tratto da: Philippe Baumard,Le limites d’une economie de la guerre cognitive, Ecole du guerre economique, 2002. Il testo in traduzione italiana è fornito dal CESTUDEC.
Non c’è dubbio che la guerra dell’informazione sia di fondamentale importanza nell’economia e nella società attuale. Inoltre, la sua importanza ha determinato il sorgere di una nuova forma di conflittualità ad ha quindi determinato il cambiamento dei paradigmi polemologici. Le nostre economie come le nostre società, essendo fortemente digitalizzate, presentano ovviamente rilevanti vulnerabilità legate alla necessità che il sistema economico moderno non può non essere aperto e fluido. Ad ogni modo, il concetto di guerra dell’informazione -come è noto- emerge principalmente dalle pubblicazioni americane ed emerge nel momento in cui la legittimità dell’informazione è stata rimessa in causa in ambito americano. Facendo fronte ai tagli di budget, le principali agenzie federali americane hanno tentato di giustificare un mantenimento del budget sottolineando l’importanza di salvaguardare la sicurezza economica; ebbene, a partire dagli anni ’90, è diventato sempre più chiaro che le logiche di conflittualità presenti nell’ambito della sfera geopolitica si siano trasferiti nell’ambito della sfera economica dove gli Stati devono essere in grado di attuare strategie di dominanza fondata sul controllo delle infrastrutture informative e dei flussi di sapere tecnologici ed economici. Una strategia che prende atto delle nuove esigenze moderne, deve ormai prendere in attenta considerazione la vulnerabilità delle infrastrutture critiche in ambito informativo (d’altronde la forte crescita della pirateria informatica ha incoraggiato gli Stati a creare organizzazioni ad hoc volte a controllare e a sorvegliare lo sviluppo di questa nuova criminalità informatica).
Un’altra osservazione da compiere è relativa all’aumento della forte rivalità economica tra Stati, forte rivalità che ha determinato il sorgere di una preoccupazione fondamentale e cioè quella relativa all’intelligence economica che è diventata una vera propria realtà per le principali industrie mondiali; infatti la conoscenza approfondita dei meccanismi informativi diventa un elemento fondamentale di successo o meno. Ora, proprio l’importanza cruciale in ambito economico delle principali industrie e multinazionali, ha indotto gli Stati a formalizzare i loro approcci nell’ambito della intelligence informativa. Sebbene l’utilizzo di campagne di denigrazione, di discredito e di disinformazione siano sempre esistite sia nell’ambito politico che nell’ambito economico, tuttavia nel mondo attuale l’accelerazione della digitalizzazione informativa ha determinato la necessità da parte degli Stati e da parte delle aziende di dotarsi di un apparato offensivo e difensivo all’altezza dei tempi. Infatti un’operazione disinformativa su larga scala attuata nei confronti di un’industria o nei confronti di una multinazionale, può determinare un danno enorme a livello economico.
Com’è noto agli studiosi di guerra psicologica, la disinformazione è certo una risorsa offensiva che ha caratteristiche molto particolari poiché è un’arma a senso unico, i suoi effetti sono particolarmente insidiosi e possono essere scoperti solo in un secondo momento; ma soprattutto gli obiettivi della disinformazione sono da un lato volti alla perdita di reputazione e di legittimità dell’avversario e dall’altro e far venir meno il sostegno finanziario (per esempio nel caso di aziende). Ebbene, mentre nei conflitti tradizionali l’economia delle forze riposava su una dimensione di rapporti inerziali e la superiorità logistica rappresentava una dimensione fondamentale per la vittoria o per la sconfitta, nelle guerre cognitive non è possibile imporre una simmetria nell’ambito del sistema cognitivo e soprattutto, contrariamente ai conflitti tradizionali, i conflitti informativi hanno una loro autonomia indipendentemente da chi costruisce o invia il messaggio; eliminare dunque il portavoce del messaggio non modifica la dimensione della conflittualità cognitiva ma al contrario finisce per rafforzare l’avversario. Inoltre le dottrine angloamericane riposano prevalentemente sulla necessità di controllare in modo istantaneo le sorgenti elettroniche sottostanti al sistema di decisione economico, politico e militare.
In questa prospettiva strategica, diventa fondamentale il controllo delle infrastrutture delle notizie; tuttavia, ad un’analisi più attenta, risulta evidente che il controllo dell’infrastruttura globale dell’informazione è incompatibile col suo modo ampio e destrutturato di dipanarsi nel mondo attuale. Inoltre la crescita esponenziale delle infrastrutture dell’informazione, non consente la possibilità di un coordinamento di tipo verticale o gerarchico. Anche il concetto di dominanza strategica si fonda sulla capacità di uno Stato di vietare o dissuadere uno Stato rivale a rimettere in causa le sue regole di condotta e sulla sua percezione della realtà. Questo approccio parte dall’assunto che il controllo globale dell’infrastruttura dei flussi di notizie permetterebbe di raggiungere una dominio globale dell’economia e della sfera politica. Tuttavia questa concezione si rivela ingenua poiché ignora il fatto che il controllo della notizia è diverso dalla formazione dei giudizi e delle credenze.
Ora, di fronte all’emergere della guerra cognitiva e della complessità e fluidità dell’informazione, i servizi di sicurezza tradizionali non hanno una cultura adeguata poiché il sistema di credenze su cui si fondano i servizi di sicurezza si costruisce sulla raccolta dei fatti osservabili e sul trattamento dell’informazione: da un lato abbiamo agenti operativi che raccolgono informazioni e dall’altra abbiamo analisti che ne fanno un’analisi. Quest’organizzazione in due tempi è certamente adatte a conflitti tradizionali ma non è adeguata ai conflitti cognitivi: la logica è profondamente diversa poiché tra la velocità con la quale viaggia l’informazione e la capacità di controllarla e di analizzarla passa un lasso di tempo brevissimo e quindi tutto ciò implica processi decisionali rapidi. In altri termini, la capacità di interpretazione e di attribuzione di senso in tempo reale è il fondamento stesso della guerra cognitiva; inoltre, dal momento che la maggior parte delle organizzazioni non statali si trova in fortissima competizione l’una con l’altra ed ha accesso alle stesse notizie provenienti dalle stesse sorgenti, esistono poche probabilità che una organizzazione statale o privata arrivi a conseguire un vantaggio concorrenziale decisivo, a meno che non si attuino miglioramenti tra il sistema di controllo della notizia satellitare e le informazioni umane.
Fatta questa precisazione, è doveroso ribadire ancora una volta come controllare i flussi di notizie sia determinante per una vittoria e come sia errato pensare che la distruzione delle infrastrutture di notizie possa veramente liquidare l’avversario. Al contrario, distruggere le infrastrutture informative può costituire e può offrire all’avversario un grado di maggiore libertà o potrà consentirgli di fare ricorso a strumenti informativi alternativi in un contesto dove, com’è noto, la diffusione dell’informazione è liberalizzata. I servizi di sicurezza devono insomma prendere atto che la tendenza attuale dell’infrastruttura globale informativa è quella di una sua balcanizzazione, cioè di una dispersione. L’efficienza tuttavia si decide sempre di più sulla padronanza delle capacità cognitive decentralizzate e sempre meno nel controllo dell’infrastruttura informativa. L’economia delle forze, nell’ambito del conflitto politico moderno, riposa su una padronanza di sistemi cognitivi fra di loro molto diversi. L’imposizione di uno schema unico di interpretazione non è una strategia che potrà dare frutti positivi sul lungo periodo.