«Il ponte delle spie» ispirato a una storia vera
È un film che si rifà ai classici senza cadere nel manierismo. Un cinema senza fronzoli e non ridondante. Tuttavia elegante e a suo modo epico
di Gaetano ValliniSe si affidano la regia a Steven Spielberg, la sceneggiatura ai fratelli Coen e il ruolo da protagonista a Tom Hanks — otto Oscar in tutto, tre il primo, altrettanti i secondi e due il terzo, oltre a diverse nomination — ci sono buone probabilità che il risultato sia grande cinema. E in effetti Il ponte delle spie conferma quanto promette. Riportandoci al clima della Guerra fredda, è un film che si rifà ai classici del genere spionistico senza cadere nel manierismo. Un cinema spoglio di ogni inutile fronzolo, non ridondante, eppure elegante, essenziale ma a suo modo epico, che può persino permettersi quel tanto di retorica, quasi inevitabile visto il tema, senza però risultare fastidioso. Merito della direzione asciutta ma sapiente di Spielberg, maestro nel ricostruire con realismo contesti storici anche complessi, nonché della solida e lineare scrittura di Joel ed Ethan Coen, coadiuvati da Matt Charman, che rendono credibili personaggi e messa in scena di una trama tratta da una storia vera. Alla fine degli anni Cinquanta, al culmine delle tensioni fra Stati Uniti e Unione Sovietica, l’Fbi arresta Rudolf Abel (Mark Rylance), considerato un agente sovietico. Imprigionato, in attesa di processo, ad Abel — che non è intenzionato a collaborare — deve essere assegnato un difensore d’ufficio. La scelta del governo cade su James Donovan (Tom Hanks), esperto di assicurazioni, ma con poca esperienza in campo penale. L’avvocato è riluttante ad accettare un incarico che potrebbe renderlo impopolare ed esporre la famiglia al pubblico sdegno e persino al pericolo. Inoltre ciò che gli si chiede è ambiguo: da una parte gli Stati Uniti vogliono dare l’idea che anche una spia, un nemico della nazione, abbia diritto a un processo equo, dall’altra ritengono che ciò possa tuttavia limitarsi alla sola facciata. Pur riluttante, Donovan accetta di rappresentare Abel. Ma, tenendo fede allo spirito della costituzione, prende sul serio l’incarico, impegnandosi affinché il suo assistito — che rispetta e comprende nelle sue scelte — abbia tutte le garanzie. Cosa che gli alienerà le simpatie del giudice e gli attirerà il biasimo della nazione, ma che eviterà ad Abel la condanna capitale. Anche perché, da esperto di negoziazioni assicurative, sa che l’uomo potrebbe un giorno rivelarsi preziosa merce di scambio nel caso in cui un agente americano finisse nelle mani dei sovietici. Circostanza che puntualmente si verifica qualche anno dopo, quando il pilota di un aereo spia statunitense, Francis Gary Powers, viene abbattuto in territorio sovietico e catturato. E sarà proprio Donovan a essere contattato dalla Cia per condurre la trattativa segreta per un scambio di prigionieri. La scena si sposta così in una gelida e spettrale Berlino Est nei giorni in cui si sta costruendo il famigerato muro, dove si concluderà sul ponte di Glienicke, il ponte delle spie.Spielberg, dunque, torna ancora una volta alla grande storia, per raccontarne un capitolo poco noto, ma dall’alto significato. Del resto da diverso tempo il suo cinema vuole andare oltre l’aspetto rievocativo per aprirsi al dibattito. In tal senso le vicende del passato dovrebbero costituire un pretesto per riflettere sul presente, sulla politica, sui suoi errori e sulle loro conseguenze, ma anche sui valori di democrazia che dovrebbe contenere e salvaguardare. Ne Il ponte delle spie i messaggi sono due, ripetuti dal protagonista — tutti hanno diritto a una difesa; ognuno di noi è importante — in continuità con quanto già detto in Salvate il soldato Ryan e più di recente in Lincoln.
Grazie anche alla bravura degli attori, Hanks e Rylance su tutti, Spielberg confeziona un racconto in cui il mondo torna a essere diviso in due, nel quale la diplomazia ufficiale deve cedere il posto a infide manovre sotterranee, e dove tuttavia eroi e antieroi, pur riconoscibili, non sono stereotipi, ma persone comuni che hanno fatto una scelta di campo. Il tutto reso con grande realismo e raffinatezza, sia pure con qualche piccolo calo di tensione. Molto si deve anche al direttore della fotografia Janusz Kaminski, con Spielberg dai tempi di Schindler’s List, per aver contribuito alle atmosfere di un film d’altri tempi. Al quale peraltro il bianco e nero non sarebbe affatto andato stretto.(©L'Osservatore Romano – 31 dicembre 2015)