Le Truppe Alpine furono istituite nel 1872, quando il neonato Regno d’Italia dovette affrontare il problema della difesa dei nuovi confini a nord del Paese che, dopo la terza guerra d’indipendenza del 1866 contro l’Austria, coincidevano quasi interamente con l’arco alpino.
Nati per combattere sui ghiacciai e sulle alte vette, gli alpini, per uno dei curiosi scherzi che il destino riserva anche alla storia ufficiale e non solo alle nostre vite private, ebbero il “battesimo del fuoco” sulle caldissime montagne africane nelle campagne di Eritrea del 1887 e del 1896. Fin dall’inizio del loro impiego, mostrarono valore e grande spirito di sacrificio, come nella sfortunata battaglia di Adua del 1° marzo 1896, sull’Amba Rajo, dove il 1° Battaglione Alpini d’Africa immolò sul posto 862 dei suoi 954 combattenti.
Secondo una leggenda che raccontano gli alpini, tutti i soldati che muoiono con il proprio cappello in testa, salgono nel “Paradiso di Cantore” vicino all’eroico generale, comandante l’Armata delle “Penne Mozze” che continua ad accogliere “veci e bocia”. Antonio Cantore, fu il primo generale combattente a morire in battaglia. Non un semplice generale, ma un Comandante di Divisione che, audace e sempre presente in prima linea, mostrava con l’esempio diretto quale fosse il corretto atteggiamento da tenere. Per gli Alpini era un mito. Riuscì a instaurare fra comandante e soldati, quella perfetta armonia di spiriti e di intenti che è premessa di coraggio e di eroismo e che porta alla vittoria.
Il destino lo premiò con “la bella morte”, idealizzata da Gabriele d’Annunzio, ma sognata anche da molti combattenti di allora. Lo uccise un proiettile in piena fronte sparato da un cecchino e fu subito innalzato negli altari degli eroi. A onor del vero, leggenda a parte, molte sono le tesi sulla morte del generale e addirittura qualcuna parla di “fuoco amico”. Verità o no, niente ha mai soppiantato il mito del generale per gli appartenenti al corpo degli Alpini.
Durante la prima Guerra Mondiale, i “figli dei monti”, come Cesare Battisti amava definire i suoi commilitoni, furono impegnati con 88 battaglioni e 66 gruppi di artiglieria da montagna per un totale di 240.000 uomini mobilitati. Seppero distinguersi, per tutta la durata delle ostilità, in molti episodi collettivi e individuali di enorme valore eroico, superando prove di grande resistenza fisica e morale, tenendo battaglie corpo a corpo di uomo contro uomo, ma anche di uomini contro le forze della natura. Compirono azioni pericolose mostrando estremo coraggio sulle alte vette delle Alpi, furono capaci di prodigiosi adattamenti alle condizioni più avverse e nelle zone più impervie e dove stoicamente misero in pratica ogni insegnamento ricevuto e sempre con grande lealtà, perché c’è una legge non scritta per cui negli Alpini non esistono comportamenti o sentimenti scorretti: il nemico si combatte ma non si disprezza mai.
Ricordiamo, fra le tante, la battaglia del San Matteo, che ebbe luogo nella nella tarda estate del 1918 su punta San Matteo a 3.678 metri di altezza. Il 13 agosto 1918 un piccolo gruppo di Alpini appartenenti alla 307ª Compagnia del Battaglione Ortles, condusse un attacco a sorpresa verso la postazione nemica e la conquistò, catturando metà dei soldati austriaci che la tenevano, mentre l’altra metà si ritirò verso postazioni più basse. La perdita di punta San Matteo fu uno smacco per l’Austria e in seguito ci fu una controffensiva. Si trattava di battaglie sanguinose, per la conquista di pochi metri di terreno con tanti dispersi e che costarono molte vite umane.
Nell’estate del 2004, dopo quasi novant’anni, i corpi congelati di tre Kaiserschützen furono trovati a 3.400 metri di quota, nei pressi della cima del monte san Matteo.