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La guerra: scenari - Scacco al califfo in tre mesi (Inchiesta l'Espresso/1)

Creato il 28 novembre 2015 da Tafanus

È il tempo necessario per vincere la guerra contro lo Stato islamico secondo gli stati maggiori. Che hanno come primo obiettivo Raqqa, la capitale (di Mark Power - l'Espresso)

Raqqa

Raqqa - Assassini all'opera

Da quindici giorni a tre mesi. È il tempo necessario, secondo gli scenari tracciati dagli stati maggiori, per distruggere Daesh, cioè lo Stato islamico. A patto che riesca a nascere una coalizione coesa e determinata. Non come quella, varata nel settembre 2014 a guida americana, che non ha mai profuso il massimo sforzo (eufemismo). La carneficina di Parigi (13 novembre, 130 morti) ha mutato lo scenario. Almeno, sinora, nelle dichiarazioni di intenti. Restano però da superare numerosi ostacoli diplomatici e tecnico-militari. Una matassa che si è aggrovigliata ancor più dopo l'abbattimento di un jet russo, martedì 24 novembre, da parte della Turchia (Paese che fa parte della Nato): due Paesi chiave per il successo della missione. L'attivismo del presidente-itinerante François Hollande segnala la fretta della Francia di «distruggere il nemico» per lavare l'offesa nel cuore della capitale. Altre cancellerie frenano, alcune perché riluttanti, altre perché chiedono tempo. All'Hôtel de Brienne, sede del ministero della Difesa francese, si elaborano piani in attesa della grande offensiva che dovrebbe scattare, grosso modo, a un mese dal massacro al teatro Bataclan, nei ristoranti e allo Stade de France e fanno notare che un arco più o meno analogo servì agli Stati Uniti d'America per organizzare l'attacco all'Afghanistan dopo l'11 settembre di New York e Washington.
LE RICHIESTE FRANCESI - Dopo aver reclamato, e ottenuto all'unanimità, l'applicazione dell'articolo 42.7 del Trattato dell'Unione europea sulla "solidarietà" in caso di aggressione, il ministro della Difesa francese Jean-Yves Le Drian, ha ordinato ai suoi generali di stilare un elenco completo di richieste ai partner del Vecchio Continente. La lista è stata inviata all'ufficio dell'Alto rappresentante Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini. La quale li inoltrerà ai vari Stati e organizzerà incontri bilaterali per valutare le disponibilità. Entro la fine della settimana prossima si avrà il quadro completo. Parigi chiede soprattutto uomini che sostituiscano i propri nei teatri dove è già impegnata («ma i comandi, dove ci spettano, li teniamo noi, non fuggiamo le responsabilità») per poterli ridislocare tra Siria e Iraq. In Mali ci sarebbe una disponibilità olandese e belga. Per il Centrafrica nessuno si è fatto avanti. In Libano potrebbe scattare il soccorso italiano, visto che c'è già un nostro rodato contingente attivo oltre il fiume Litani dal 2006. Sarebbe la nostra unica concessione, Matteo Renzi ha timore di finire nel pantano.
L'Armée è poi carente di aerei per il trasporto truppe, fondamentali per la logistica così come un nutrito apparato di sostegno a terra per l'aviazione che dovrà sostenere il peso maggiore dello sforzo bellico. E ha bisogno di racimolare centinaia di consiglieri militari e istruttori per gli eserciti dell'area che dovranno affrontare i fondamentalisti islamici sul terreno. Grande importanza viene anche attribuita al lavoro di intelligence da coordinare tra gli 007 dei Paesi europei presenti o in arrivo in Medio Oriente. Tranne l'Inghilterra di David Cameron che ha deciso di partecipare ai bombardamenti (ma ha bisogno di un passaggio parlamentare che fu per lui negativo nel 2013) e ha offerto l'uso della base della Raf di Akrotiri (Cipro) nessun altro ha spinto così in avanti il suo livello di partecipazione. Si profila una guida franco-inglese (le due nazioni che avevano disegnato il Medio Oriente così come è dopo la prima guerra mondiale, un secolo fa...) almeno del campo europeo. Perché i francesi tengono a precisare, correggendo un malinteso, di non aver nessuna velleità di capeggiare una coalizione internazionale che resterebbe saldamente nelle mani della potenza egemone: gli Stati Uniti di Barack Obama. Al contempo non escludono, in caso di necessità, di poter impiegare i fanti, di mettere gli scarponi nel deserto, almeno per operazioni mirate di commando, sull'esempio di quanto fanno e, come vedremo faranno ancora di più, gli americani, soprattutto nella zona di Raqqa, l'autoproclamata capitale del sedicente Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi.
ALL'ATTACCO DI RAQQA - Raqqa è il primo obiettivo. Avrebbe un significato simbolico perché lì sono stati progettati gli attentati di Parigi, Beirut e contro l'aereo russo nel Sinai (200 morti) solo per stare ai più recenti. Ed è anche il meno complicato, a patto di sigillare il poroso confine turco da dove passano miliziani e armi per il califfo, si sospetta con la complicità di Ankara. Dicono all'Hôtel de Brienne: «A Washington non piacerà la prospettiva di armare i curdi dell'Unità di protezione popolare (YPG) che sta nella loro lista delle formazioni terroristiche, ma noi dobbiamo considerare che stanno attestati a trenta chilometri da Raqqa, in una posizione molto favorevole, e sono pronti a lanciare l'offensiva». Emanazione del partito dei lavoratori del Kurdistan turco (PKK), nemici giurati di Ankara, hanno anche una brigata femminile (YPJ, Unità di protezione delle donne) e si sono distinti nella gloriosa riconquista di Kobane. Assieme ad alcuni gruppi di ribelli arabi hanno costituito lo scorso 11 ottobre le "Forze democratiche siriane". A loro Le Drian vorrebbe fornire arsenali e consiglieri. Con l'appoggio della portaerei "Charles de Gaulle" e dei 26 velivoli che scorrazza nel Mediterraneo, potrebbero essere in grado nel giro di poche settimane, di arrivare nel cuore del califfato. Negli ultimi 15 giorni hanno strappato allo Stato islamico 1.100 chilometri quadrati di territorio ad est di Raqqa. L'inviato Usa per la coalizione anti-Is Brett McGurk ha annunciato l'imminente arrivo in zona di cinquanta uomini per missioni speciali, in grado di svolgere operazioni ad alto rischio. Nell'ipocrisia diplomatica darebbero un aiuto alle "Forze democratiche" e non al YPG, come se non fosse in pratica la stessa cosa. Finzione benvenuta se utile a conseguire un risultato sul quale gravano però due incognite. Intanto l'ostilità russa. Vladimir Putin ha nel mirino questi alleati dell'Occidente perché sì avversari di al-Baghdadi, ma contemporaneamente nemici del suo protetto Bashar Assad, il presidente di quel che resta della Siria rimasta sotto il controllo del governo centrale. E poi la geografia umana di Raqqa, dove abitano 250 mila persone e dove i miliziani fondamentalisti usano i civili come scudi umani per proteggersi. Un eventuale alto tributo di sangue della popolazione potrebbe alienare il consenso già minato dalla diffidenza nel caso che i "liberatori" delle genti sunnite fossero gli storici avversari curdi. Pur con tutte queste difficoltà, Raqqa è a portata di mano: espugnarla, darebbe un colpo fatale allo Stato terrorista.
POI MOSUL - L'altra "capitale" dello Stato islamico è Mosul, in Iraq, l'antica Ninive. Sarà la "madre di tutte le battaglie". Anche perché quella più difficile e, in prospettiva, finale. La recente conquista di Sinjar da parte dei peshmerga curdi iracheni e degli yazidi che ne furono cacciati (e fu un vero tentativo di genocidio) nell'agosto 2014, ha permesso di interrompere i collegamenti sull'asse Raqqa-Mosul. La coalizione mira anzitutto a isolare completamente l'obiettivo ma al momento incontra difficoltà ad allestire un esercito di terra locale che possa reggere un conflitto tanto impegnativo. Proprio dopo Sinjar sono esplose le rivalità tra due diverse fazioni curdo-irachene che insieme avevano raggiunto l'intento. Il vice-segretario di Stato americano Antony Blinken è volato a Erbil per cercare di risolvere il contenzioso. All'Eliseo minimizzano: «Fosse questo il problema...». Mentre mostrano assai più ansia circa l'esito dello sforzo, a loro avviso doveroso, per costringere sotto lo stesso comando i peshmerga e il disastrato esercito regolare iracheno, ancora fiaccato dalle disastrose sconfitte subite ad opera degli islamisti. «Ricostruire delle unità combattenti efficaci a Baghdad è un compito davvero arduo», riconoscono a Parigi, «dopo la sconcertante fuga di massa dei soldati davanti all'avanzata su Mosul delle truppe del califfo» (era il giugno del 2014). Proprio per questo una delle richieste più pressanti, all'Italia e non solo, è quella di istruttori (già ne abbiamo dislocati da tempo alcuni) che possano addestrare e motivare i militari da impiegare nell'"operazione Mosul". Mentre gli americani insistono sui carabinieri per un analogo lavoro con le forze di polizia delle città sunnite ancora sotto il controllo dell'autorità centrale.
L'ALLEATO SCOMODO - A nessuno piace evocarlo, anche perché sino a ieri faceva parte dell'"asse del male" (copyright, George W. Bush). Ma l'Iran è la carta di riserva sinora fantasma, da usare con cautela e in caso di assoluta necessità. In nome della fratellanza sciita controlla gran parte del sud Iraq e ha un'influenza decisiva sul governo di Baghdad. Dopo l'accordo sul nucleare Teheran è stata sdoganata ma non troppo, rientrata nel consesso internazionale ma non del tutto. I suoi militari sono già stati usati con parsimonia in funzione anti-Is a causa dello storico conflitto sciiti-sunniti che li rende invisi nelle aree da riconquistare. Il loro prepotente ingresso sulla scena segnerebbe il definitivo riconoscimento del regime degli ayatollah come potenza regionale, un incubo per Israele, un calcio ai già precarissimi equilibri. Però e vero che diverse autorità dell'Unione europea sono corse in Iran per saggiarne le intenzioni. E avrebbero strappato un "sì" a mezza bocca all'ipotesi di abbandonare al suo destino il protetto siriano Bashar Assad, in vista di un ridisegno complessivo dell'area più turbolenta del mondo: e in Siria al momento, a fianco del dittatore, si battono almeno duemila iraniani. Ma questo è uno scenario futuribile.
L'ALLEATO POSSIBILE - Chi ancora non molla Assad è la Russia di Vladimir Putin. Il contributo dello zar è considerato talmente prezioso dalla Francia che Hollande ha rinunciato all'idea tanto sbandierata in passato di porre il cambio di regime a Damasco come base di trattativa. Parigi sente Mosca più vicina non solo perché sono i due Stati più colpiti dagli attacchi dei terroristi ma anche perché sono i Paesi da cui è partito il maggior numero di combattenti stranieri per il califfato. Estremisti che potrebbero portare, domani, la guerra in casa. Inoltre gli aerei russi sono fondamentali per farla finita in tempi brevi con al-Baghdadi. Certo sarà difficile, per l'Eliseo, mettere a uno stesso tavolo Obama e Putin per quell'alleanza trasversale mondiale «la più vasta possibile» che si vagheggia. E l'abbattimento del jet russo da parte della Turchia complica le buone intenzioni. Washington non può e non vuole rinunciare ad Ankara che vede materializzarsi, negli sconvolgimenti annunciati, l'incubo di uno Stato curdo trasversale a Siria, Iraq e Turchia che amputerebbe una parte del suo territorio.
LE BOMBE. E DOPO? - La guerra si farà. Al di là di ipotesi di scuola come la successiva nascita di nazioni su base etnica, una sorta di balcanizzazione del Medio Oriente, nessuno ha ad oggi un'idea precisa di come gestire il dopoguerra, tallone d'Achille delle avventure belliche recenti. L'urgenza francese è quella di vendicare la Ville Lumière, togliere agli jihadisti interni, annientandolo, l'idea di potersi immolare in nome di uno Stato di riferimento, un'agghiacciante terra promessa totalitaria e terrorista dove vige la legge della Sharia. All'Hôtel de Brienne le energie sono tutte tese alla costruzione dell'impresa militare «indispensabile». Poi si vedrà: «Intanto liberiamoci di questi assassini».

(Fine prima puntata)


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