Presentato, in concorso, alla VI edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, La kryptonite nella borsa rappresenta l’esordio da regista dello scrittore e sceneggiatore Ivan Cotroneo, il quale, coautrici dello script Monica Rametta e Ludovica Rampoldi, ha trasposto sul grande schermo il suo omonimo romanzo del 2007, edito da Bompiani.
Ambientato nella Napoli del ’73, colorata, vivace, sospesa tra passività ed attivismo verso le tante trasformazioni in atto, nuove idee e atavici condizionamenti, la pellicola punta più sulla concretezza del ricordo che sull’effetto nostalgia propriamente detto: si tratta, lo sottolinea la voce narrante, di una storia d’amore, volta a cogliere il senso della vita ad altezza di bambino, simbolo di quel fanciullo che siamo stati e vorremmo ancora essere nel vivere ogni nuovo giorno come fosse il primo vissuto sulla terra, capaci d’aprirci al mondo e coglierne ogni portata di novità, metabolizzandola e rendendola in forma d’ idea autonoma, per affrontare al meglio il cammino.
Peppino (Luigi Catani), è un ragazzino di 9 anni, bruttarello e complessato, anche per via degli occhialoni imposti da una forte miopia, con molte difficoltà ad integrarsi nel complesso sociale tradizionalmente costituito dalla triade famiglia- chiesa- scuola, in particolare da quando la madre Rosaria (Valeria Golino) è caduta nel vortice di una forte depressione, in seguito alla scoperta del tradimento ad opera del marito Antonio (Luca Zingaretti), che, non senza qualche imbarazzo e difficoltà, si troverà ad occuparsi del figlio.
Sballottato tra amici e parenti, coinvolto in particolare dagli zii fricchettoni Titina (Cristiana Capotondi) e Salvatore (Libero De Rienzo) nelle loro esperienze psichedeliche e lisergiche, Peppino troverà conforto nella figura del cugino Gennaro (Vincenzo Nemolato), fattezze e modi da Superman, proiezione, sia da vivo che da morto, di tutti i suoi disagi esistenziali: grazie a lui capirà come una concreta felicità possa essere espressa non tanto nell’andare contro il sistema, regole o convenzioni morali, ma nella libertà d’accettarsi così come si è, consci della propria diversità in chiave d’ unicità su cui fare leva, tra autodeterminazione e presa di coscienza.
Tecnicamente il film risulta, soprattutto da un punto di vista narrativo, scomposto in singoli quadri, come se si volesse visualizzare sullo schermo qualche pagina a caso del libro da cui è tratto, alternandosi tra toni surreali ed intimistici, senza abbracciare propriamente una caratteristica stilistica ben precisa: l’affiatamento dell’intero cast, con tutti gli attori estremamente naturali nella loro interpretazione, evidenzia però tanto una notevole “morbidezza” di ripresa, che una certa attenzione per ogni singolo carattere, ben reso nella vitalità del suo percorso esistenziale.
La cura per ogni dettaglio, la capacità di mantenersi nei limiti del buon gusto, senza mai sconfinare nella volgarità gratuita, fanno presto dimenticare imperfezioni ed incertezze, le quali, forse, non permetteranno una classificazione ed un’analisi complessiva ben precise, ma lasciano certo posto ad una felice nota di speranza all’interno del spesso asfittico catalogo delle commedie nostrane.