La lampada a incandescenza

Creato il 31 gennaio 2015 da Giovanniboaga

Storia di un piccolo, grande oggetto nell'Anno internazionale della luce

L'oscurità ha sempre rappresentato per l'Uomo un problema serio da affrontare. Al buio non si può fare quasi nulla e, inoltre, si è fortemente vulnerabili non essendo dotati di un sistema di visione efficiente in condizioni di scarsa luminosità. Il controllo del fuoco da parte di Homo erectus, le cui prime testimonianze risalgono a un milione e mezzo di anni fa, rappresentò quindi un passo fondamentale nel cammino culturale umano. Oltre alla possibilità di consumare cibi cotti e riscaldarsi nelle giornate di freddo, questi primi uomini ebbero l'opportunità di illuminare la notte, aumentando la sicurezza e rafforzando i rapporti umani, contribuendo a porre le basi per le prime comunità.
Da allora di strada ne è stata fatta tanta e oggi quello dell'illuminazione è, per noi abitanti delle società tecnologiche, una presenza tanto insostituibile quanto scontata e basta anche una breve interruzione della fornitura di elettricità per mandarci nel panico, alla ricerca (al buio) di candele nascoste chissà dove e torce elettriche con le batterie scariche.

La luce è anche il filo conduttore di tutta la ricerca scientifica e tecnologica del passato, del presente e del futuro e non è sorprendente, quindi, che l'Assemblea generale delle Nazioni Unite abbia dichiarato il 2015 Anno internazionale della luce e delle tecnologie basate sulla luce.
L'inaugurazione ufficiale si è tenuta il 19 gennaio a Parigi, presso la sede dell'Unesco, seguita, il 25 gennaio, da una cerimonia a carattere nazionale che si è svolta a Torino, organizzata dalla Società Italiana di Fisica, sotto l'egida dell'UNESCO, insieme al Comune di Torino e all'Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica, in collaborazione con la Società Europea di Fisica, l'International Centre for Theoretical Physics di Trieste e molte altre società scientifiche.

Ma questa nostra necessità vitale di luce ha un simbolo, la lampadina elettrica a incandescenza, e l'uomo che ha legato il suo nome a questa piccola compagna delle nostre attività notturne non ha bisogno di presentazioni, con i suoi più di mille brevetti registrati in tutto il mondo e una capacità fuori del comune di unire al processo inventivo i principi della produzione di massa: Thomas Alva Edison.
Il suo laboratorio di Menlo Park, nel New Jersey, fu proprio costituito allo scopo non solo di produrre innovazioni tecnologiche ma anche di migliorare quelle di altri inventori e, successivamente, registrare il prodotto finale a proprio nome.
Senz'altro un grande intuito, quello di Edison, che lo portava ad acquistare brevetti altrui anche quando la qualità non era eccelsa ma migliorabile, una notevole dose di spregiudicatezza e, soprattutto, la possibilità di contare su bravi collaboratori, in grado di supportarlo sia dal punto di vista ingegneristico che da quello commerciale: "[...] è aiutato da un numero grande di assistenti e qualunque cosa gli salti in mente di costruire lo può fare senza difficoltà", scriverà in una delle Lettere americane Camillo Olivetti, fondatore dell'omonima industria di Ivrea, in visita ai laboratori di Edison durante un viaggio negli Stati Uniti nel 1893.

Quello della lampada a incandescenza è proprio un esempio paradigmatico delle caratteristiche del grande inventore americano e tratteggiare la storia della sua realizzazione ci permette di sfatare il luogo comune che attribuisce frettolosamente la paternità di questa importante invenzione a un uomo solo, trascurando la complessità della vicenda storica che vede come protagonisti molti altri inventori ottocenteschi, e di scoprire un "lato italiano" di questa interessante vicenda.

Innanzitutto: cos'è una lampada a incandescenza? È una fonte di luce artificiale che sfrutta l'emissione di fotoni da parte di un filamento metallico surriscaldato per effetto del passaggio di corrente elettrica. Dai primi anni del Novecento il metallo utilizzato è il tungsteno, grazie al lavoro di William David Coolidge che per primo riuscì a mettere a punto un procedimento per la trafilatura di questo materiale che consentì la realizzazione di filamenti duraturi. Ma già un secolo prima il chimico francese Louis Jacques de Thénard e, in particolare, il chimico britannico Humphry Davy, uno dei padri dell'elettrochimica moderna oltre che maestro del celebre Michael Faraday, costatarono la possibilità di sfruttare gli effetti luminosi di una strisciolina di metallo portata all'incandescenza. L'intuizione però non ebbe seguito principalmente per la scarsa efficienza delle sorgenti elettriche a disposizione e per le ricerche in corso sulle lampade ad arco elettrico, ritenute più promettenti.

Se la scelta dei metalli più idonei per lo sfruttamento dell'incandescenza ai fini d'illuminazione cadde rapidamente su platino, già indicato da Davy, e iridio per le loro elevate temperature di fusione (1768,4°C e 2446°C) e la relativa semplicità di ottenere filamenti con questi materiali, un altro ostacolo impediva la costruzione di lampade efficienti. Ci si rese ben presto conto che l'elemento radiante, fosse stato di platino, iridio o qualunque altro materiale, aveva una durata troppo breve per poter pensare ad un uso commerciale di una lampada realizzata con tale tecnologia. La temperatura elevata che i filamenti raggiungevano e la presenza dell'ossigeno nell'aria, anche in quantità minime come dimostrò nel 1840 Warren De La Rue, portavano in tempi rapidi alla loro rottura. Un problema serio vista la difficoltà di estrarre l'aria dalle ampolle di vetro con le pompe a disposizione, troppo lente per essere compatibili con una produzione industriale.
Occorre aspettare il 1854 perché il tedesco Heinrich Goebel superi, almeno in parte, queste difficoltà e riesca in modo efficiente a produrre lampade a incandescenza. Goebel, che faceva l'orologiaio e girava per le città offrendo a pagamento l'uso del suo telescopio, realizzò le lampade utilizzando delle bottigliette di acqua di colonia parzialmente svuotate d'aria nelle quali inseriva, come elemento radiante, non un filamento metallico ma una strisciolina di bambù carbonizzato.

Ma non era Edison l'inventore della lampadina a incandescenza? Evidentemente no, visto che nel momento in cui Goebel realizza le prime lampade il piccolo Thomas aveva solo sette anni! Nonostante questo solamente nel 1893 verrà riconosciuta legalmente la precedenza dell'inventore tedesco su Edison.
Certo le lampade di Goebel e quelle che vennero realizzate negli anni immediatamente successivi, in Francia nel 1856 da de Changy e in Russia nel 1872 da Lodyguine, non possono considerarsi ancora commercialmente interessanti. Perché lo diventino occorre aspettare l'opera di Edison e, prima di lui (ancora una volta), il lavoro di dell'inglese Joseph Wilson Swan.

Solo a partire dal 1878 Edison si cominciò a interessare della realizzazione di lampade a incandescenza. Sulla scia di quanti lo avevano preceduto e con la consueta energia iniziòuna serie di sperimentazioni con filamenti di platino e, dal 1879, anche con fibre vegetali carbonizzate. La lampada, che presentò il 31 dicembre 1879 e che utilizzava un filamento di carta carbonizzata, entrò in produzione l'anno successivo, costruita e commercializzata dalla Edison Lamp Company. La convinzione che le fibre vegetali carbonizzate fossero la soluzione ottimale lo portò a sperimentare per parecchi anni con molte specie di bambù, trovandolo particolarmente adatto a fornire il materiale per il filamento delle sue lampade.
La presentazione in pubblico della fine del 1879 della lampada a filamento di carbone fu anticipata, però, da quella che Swan fece nel febbraio dello stesso anno alla Royal Society di Newcastle, coronando così più di trent'anni di studi sulla possibilità di realizzare una lampada a incandescenza.

Le lampade prodotte industrialmente da Edison in quel fatidico 1880 duravano solo un centinaio di ore e non avevano ancora una buona efficienza luminosa, cioè un valore adeguato del rapporto tra il flusso luminoso prodotto e la potenza in ingresso, misurato in lumen/Watt ( lm/W). A confronto con le lampadine a incandescenza di oggi che hanno valori di efficienza intorno ai 14 lm/W, quelle commercializzate dalla Edison Lamp Company non superavano i 4 lm/W.
La sfida al miglioramento di efficienza e durata delle lampadine viene raccolta, tra gli altri, anche da un singolare ricercatore piemontese: Alessandro Cruto. Coetaneo di Edison (era nato anche lui nel 1847), non seguì studi regolari ma si dedicò, con accanimento giovanile e una grande e profonda curiosità che lo caratterizzò per tutta la vita, al tentativo di ottenere artificialmente diamanti per uso industriale. Con grandi sacrifici dell'intera famiglia si procurò anche una pompa in grado di produrre forti pressioni con la quale riuscì a ottenere lamine di carbonio lucenti ed elastiche come l'acciaio, certo molto lontane dal diamante sognato.

Il 1879 è un anno di svolta per il giovane Cruto. Come lui stesso racconta nei suoi taccuini, all'inizio di quell'anno era venuto a conoscenza degli studi di Edison sulle lampade a incandescenza e il 24 di maggio non si lasciò scappare una conferenza che il celebre Galileo Ferraris tenne nel Museo Industriale Italiano proprio su quello stesso argomento. L'impressione fu grande e Cruto, immediatamente, cominciò a interrogarsi sulla possibile applicazione dei suoi studi sul carbonio alla realizzazione di lampade.

Dopo un primo scoraggiamento per la difficoltà di ottenere fondi adeguati, riuscì a catalizzare l'attenzione di qualche finanziatore e, il 5 marzo 1880, realizzò "il 1° esperimento d'illuminazione elettrica allestito nel laboratorio nella Regia Università di Torino". Le sue lamine di carbonio davano prova di perfetta omogeneità ma l'illuminazione durava poco, complice una non perfetta realizzazione del vuoto nelle ampolle di vetro. È solo l'inizio. Mentre Edison cominciava la produzione industriale delle sue lampadine con filamento di carbone vegetale, Cruto si buttava in esperimenti continui fino a comprendere che le lamine di carbone, per quanto di buona qualità, non erano la soluzione ottimale. "[... ]Convinto poi che quella forma dei carboni non era la più appropriata e che la forma a filamento meglio si addiceva allo scopo, studiai il modo di ottenerlo in filo. Trovai il modo di ottenerlo facendo depositare il carbonio sopra un filo finissimo di platino, percorso da una corrente elettrica da portarlo al rovente in un'atmosfera di idrogeno bicarbonato". È qui l'idea vincente: non più una lamina ma un sottilissimo tubicino di carbonio sintetico che presenta, a differenza del carbone vegetale, caratteristiche controllabili. Ma il lavoro non è finito perché lui stesso si rese conto che una lampadina, a dispetto della sua apparente semplicità, è un insieme di parti che presentano difficili problemi di costruzione se si vuole che essa sia efficiente e duri nel tempo.

Perfezionate tutte le altre parti della lampada, come le saldature del filamento ai reofori metallici che meritavano, secondo Cruto stesso, l'appellativo d'invenzione, il prodotto era pronto. Nell' Esposizione di Elettricità che si tenne nel 1882 fece un'ottima figura e l'inventore piemontese diventò famoso tanto da spingere il comune di Piossasco, sua città natale, a istallare un impianto di illuminazione pubblica con le "lampade Cruto". Il 16 maggio 1883 le strade della piccola città della provincia di Torino s'illuminarono con lampadine elettriche, un anno prima di Parigi sempre indicata come detentrice di questo primato.

La qualità tecnica della lampadina prodotta della Società Italiana di Elettricità Sistema Cruto, fondata dall'inventore nel 1885 che troverà sede ad Alpignano, era senza dubbio superiore a quella delle lampade di Edison. Il filamento aveva una resistività uniforme e una resistenza costante garantendo maggiore durata e migliore qualità della luce prodotta, bianca e non giallastra come quella delle lampadine d'oltreoceano. E oltre alla certificazione ottenuta dai test realizzati al Politecnico di Zurigo dal celebre fisico Weber, la qualità delle lampade Cruto fu testimoniata dal successo che ebbero anche fuori d'Italia, andando a illuminare le case e le strade di Ginevra, Parigi, New York e l'Avana.


La figura di Cruto certo non si può paragonare a quella di Edison, Bell o von Siemens che riuscirono a costruire dei veri e propri imperi industriali sfruttando a dovere i brevetti delle loro invenzioni. Nonostante questo rappresenta una delle eccezioni nel panorama degli inventori italiani dell'Ottocento. Con grandi difficoltà riuscì a passare dalla dimensione dell'invenzione a quella della produzione, a realizzare quella trasformazione dell'idea in prodotto che non trova molti riscontri nel nostro paese appena uscito dalle guerre risorgimentali. Al contrario della Germania e degli Stati Uniti, alla fine dell'Ottocento l'Italia è un paese giovane e come tale non ancora maturo per consentire quel trasferimento tecnologico che è il risultato certamente dell'azione di uomini ingegnosi ma anche, e soprattutto, della mentalità di un sistema industriale che colleghi il profitto agli investimenti nella ricerca.
A poco più di centocinquant'anni dall'Unità il nostro paese ha costruito un sistema produttivo in grado di stimolare la ricerca e recepirne in modo adeguato i risultati migliori?


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