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LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. I

Creato il 12 dicembre 2010 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Cap. I

LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. I
Poche masserizie nella stanza. Una lampadina da quaranta candele pendeva però dal soffitto disegnando sulle pareti di muffa e vernice scrostata chiazze di luce, lasciando nell’ombra larghe porzioni della stanza. Così illuminata non era dissimile a una prigione. In un angolo stava un buco coperto da un paio di assi di legno: era lì che Lino si liberava alla turca. Nell’angolo davanti a sé una piastra per cucinare, due fornelli quasi sempre spenti. Cassette vuote, rovesciate a terra, servivano da sedie e all’occasione anche da tavolo. Un materasso con sopra delle pulciose coperte raccattate dalla Caritas completavano l’arredamento del monolocale.

Un unico libro tenuto insieme da una copertina oramai senza più traccia d’alcun colore. Il sermone. Lui lo chiamava così. Ma era indicato anche nella nota ai lettori che si trattava di un sermone e non di altro. In ogni caso Lino lo teneva caro, per quanto gli fosse possibile. Non poche erano difatti le volte che si era venuti alle mani. Certe sere, con i compagni mezzo avvinazzati, se le suonavano di santa ragione. Lino ce l’aveva sù, a morte, con i fondamentalisti islamici. Quelli del Partito prima cercavano di fargli cambiare idea con paroloni e ciance ripetute a memoria, imparate da qualche librone dimenticato, poi si finiva in zuffa. Lino sputava sul Corano, su Maometto, sulla Montagna, sugli Iman. I compagni lo legnavano. Neanche loro però sapevano dire perché Lino fosse a sinistra e non a destra. Alle volte il sospetto era che fosse un fasciocomunista. Altre ancora che fosse un fascio bell’e fatto o un anarchico deficiente. In realtà non sapevano bene che dire di questo giovane, eccetto che se la passava davvero male e che con i padroni non legava. Mangiava pane e acqua quand’era fortunato, Barbera in brick da un euro e poco altro. Non chiedeva l’elemosina. Non lavorava. Quando lavorava era per qualche giorno, poi finiva fuori a pedate in culo. Non era un ignorante ma nemmeno un pozzo di scienza. Era uno, uno in mezzo ai tanti in quel diavolo di ghetto di San Salvario dove anche la polizia stringeva le chiappe prima d’entrare.
Lino era venuto sù a Torino con meno d’una valigia di cartone. Giù al suo paese si poteva soltanto morire, per regolamenti di conto in pieno giorno. Uscivi di casa e ti affidavi alla fortuna pregando San Gennaro, che puntualmente benediceva camorristi e musulmani. Una volta morti i suoi vecchi Lino pensò bene di squagliarsela. Era già un uomo di trenta anni, non bello, non brutto, in salute, poteva dunque tentare altrove e levarsi dalla merda se gli riusciva.
Non gli era costato niente levarsi dalle palle. In paese non aveva mai legato con nessuno in particolare. Con le donne men che meno, tutte puttane. Preferiva una sveltina con una professionista fuori dalla cintura periferica piuttosto che mischiarsi con la sozzeria delle paesane, buone a sparare calunnie da mane a sera, ad andare in chiesa anche più volte al giorno intrattenendosi con il parroco. Ne aveva anche beccate non poche di donnette del suo paese a battere in strada. Gli aveva riso in faccia. Non se le sarebbe fatte manco gratis a quelle. Troppo volgari. Troppo false anche solo per pensare di sbatterglielo dentro.
Non gli era stato difficile raccattare i pochi spiccioli che i suoi vecchi gli avevano lasciato… Si può dire che fatti i conti conveniva telare: debiti. Nient’altro che debiti. Erano stati dei cari genitori, troppo onesti per arricchirsi, avevano raccolto debiti e basta. Si erano spaccati la schiena nei campi fino a morire senza conoscere mai altro che la campagna circostante e il dialetto del paese. Non avevano mai fatto una vacanza, né sapevano scrivere il loro nome; ciò non ostante quando lui Lino era un bimbetto si erano fatti in quattro per dargli un’istruzione. A diciotto anni si era diplomato. Impossibile pensare di fare anche l’Università. Ma’ e Pa’ si erano dissanguati per mandarlo a scuola e non fargli mancare penne e libri. Il loro amore aveva fatto di lui una persona adulta. Senza un futuro davanti. Colpa del paese, arretrato e chiuso nell’ignoranza e nella superstizione. Lino aveva dunque riposto il diploma in un cassetto e si era provato ad andare nei campi. Non aveva retto. Non era possibile che facesse la fine dei suoi genitori, gobbi e incartapecoriti, bestie da lavoro per chi gli dava un pezzo di pane. Aveva mollato e si era arrangiato perlopiù con lavoretti sporchi, che non nuocevano più di tanto alla comunità, solamente a quella più spaccona e benestante. Era un ladruncolo. Aveva imparato per necessità. Con la morte dei genitori però vivere di piccole ruberie non era più possibile. Se non si fosse deciso sarebbe stato sepolto nella stessa terra che gli aveva dato i natali. L’idea di finire morto seppellito, ridotto a una bestia umana sotto padrone, all’età di venti anni gli scatenò il terrore.
La prima volta che era finito al Pronto Soccorso, il medico di turno – che si era fatto attendere, mentre lui credeva di morire in sala d’aspetto dove peraltro non c’era un cane, nemmeno una infermiera del cazzo – l’aveva rassicurato dicendogli che si era trattato di un DAP.
“Cheee…?”
“Un attacco di panico. Il paziente crede di morire. Un disturbo psicologico.”
“Sta dicendo che sono pazzo.”
“E’ un disturbo diffuso. Non è pazzo.”
“E…?”
“Cerchi di stare calmo e di non pensare.”
Lino rimase a bocca aperta. E il medico lo buttò fuori con una stretta di mano e un sorriso cattivo sulle labbra. Dopo il primo attacco ne seguirono altri.

Lino era quasi felice durante gli attacchi di panico. Felice in una maniera malata, si figurava infatti martire. Non sapeva dire bene di chi, di cosa. L’importante era sentirsi martire. Tutto qui. Ci prese gusto, un giorno sì e uno no era al Pronto Soccorso in sala d’attesa, sorvegliato da nessuno, degnato a malapena d’uno sguardo schifato da una infermiera di passaggio. Stava delle ore ad aspettare che il medico lo cacciasse a pedate. La crisi non gli passava se non riceveva prima la dose quotidiana di calci sulle gengive. Il primo attacco l’aveva avuto qualche giorno dopo aver finito di leggere il sermone contro l’islamismo. Una volta glielo disse al dottore che lui era un martire per colpa degli islamici. Quello aveva annuito, con serietà quasi e per quella volta soltanto gli aveva dato un bicchiere di plastica con delle gocce calmanti.

NO OT


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