LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. V

Creato il 27 dicembre 2010 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Cap. V

Era quasi il mattino.
Il sonno gli era passato e il disgusto era stato il suo primo caffè nella città sabauda.
Un’altra bocca da sfamare. Quei negri di merda erano felici come pasque, loro che la Pasqua non la conoscevano pur combattendola a colpi di machete.
Gli era nato un altro figlio. Un maschio. Un’altra bocca che lo Stato italiano avrebbe dovuto sfamare.
Li aveva visti come se la passavano male quelli, figliavano peggio dei conigli. Mai che gli mancasse niente: passeggini di prima qualità che gli italiani se li sognano, telefoni cellulari sempre all’orecchio, buste piene delle loro fottutissime cose – ben nascoste all’occhio indiscreto e quand’anche no mai un poliziotto che si azzardi a sbirciarci dentro.

Lino era imbufalito, ma più che altro si sentiva tradito, perché lui una donna non ce l’aveva e nemmeno un figliolino e mai si sarebbe fatto una famiglia, tutto per colpa degli extracomunitari che il governo invitava a riprodursi e quelli obbedivano sicuri che il governo avrebbe pagato sull’unghia. Nasceva un negretto e l’Italia gli dava bonus, soldi in contanti e case popolari. Uno sporco bianco invece era già tanto se riusciva a non ridursi a rovistare nei cassonetti dell’immondizia in cerca d’una frutta marcia. Lino non ci credeva alle bubbole che certi giornali di sinistra vomitavano in prima pagina. Non era affatto vero che i negri venivano sfruttati dai padroni. I padroni i negri li trattavano con i guanti bianchi, mentre agli italiani li facevano lavorare di tanto in tanto ma in nero e se qualcuno ci rimetteva la pelle tanto meglio.

Quand’era giù in paese un diavolo islamico gli era passato davanti bello bello con tanto di felicitazioni del kapò dei cantieri di lavoro. Lino aveva fatto domanda per un cazzo di sostegno al reddito, ma non l’avevano mai chiamato. Rosso di rabbia un mattino si era presentato in Comune per sapere il perché e il percome di quel silenzio, perché lui era sicuro che aveva diritto a un sostegno; tuttavia un impiegatuccio – buono solo a riscaldare il culo sulla sedia – gli si era sparato davanti invitandolo a levarsi di torno. Invece di raccogliere l’invito, fregandosene dell’ometto che gli berciava male parole alle spalle, riuscì a raggiungere l’ufficio del kapò. Bussò una sola volta, con il pugno chiuso, ed aprì la porta. Si trovò faccia a faccia con un tristo omarino dall’aspetto boteriano e gli occhi porcini. Era un nano o giù di lì. Per pochi centimetri di troppo non era un cazzo di nano bell’e fatto. Stringeva la mano a un maomettano con addosso una sorta di caffetano bianco, che fissava il crocifisso appeso sopra la testa del kapò.
Accortosi dello sguardo fisso del diavolo islamico, il kapò subito si era prodotto in scuse e giustificazioni: “Oh, quello! L’ho sempre detto che bisognerebbe levarlo. Siamo in Italia, in un paese libero…”
Il maomettano non pareva convinto, nonostante il nano fosse scoppiato in una risata nel vano tentativo di smorzare l’imbarazzo.
Solo dopo un minuto buono quel cazzo di nano si era accorto che nell’ufficio aveva fatto irruzione una terza persona. Lino fissava ora il maomettano ora il kapò incapace di dire chi dei due fosse più sporco.
Il nano infine gli chiese cosa volesse.
“Quello che hai dato a lui”, gli sputò in faccia Lino. “Lo stesso trattamento”.
“Non è con me che deve parlare… ma lei ce l’ha un appuntamento?” Aveva dunque preso ad agitarsi tutto, manco avesse la sindrome di Tourette. Subito accorsero delle donne, il personale addetto alle pulizie. Non era loro che il kapò desiderava, non per costringere Lino a levarsi dalle palle.
Il nano sbraitò.
Ci fu un parapiglia di mani di spintoni di gomitate nelle costole.
Ad un certo punto il figlio di Maometto gli sferrò un pugno dritto in faccia. Poco mancò che gli facesse male sul serio. Per un puro caso il pugno lo centrò solo di striscio. A quel punto Lino non ci aveva visto più. Sgomitando e pestando i piedi a tutti si liberò. Prima che potesse rendersene conto lui stesso un colpo andò a piantarsi sul faccione di quel jinn facendogli sanguinare il nasone. Soddisfatto del risultato era già pronto a suonargliele, quando fu immobilizzato e sbattuto a terra. Dei vigili urbani, chiamati non si sa bene da chi, si erano materializzati nell’ufficio e subito si erano gettati su Lino. Il kapò dei cantieri di lavoro lo fissava con velenoso astio e così pure il jinn che lasciava che il sangue gli colasse libero dal naso.

Lino era stato denunciato per rissa e dal Comune e dal figlio di Maometto.

In seguito venne a sapere che da tutti gli uffici comunali del paese erano stati tirati giù i crocifissi appesi alle pareti. E il parroco non aveva osato alzare al cielo un solo timido ‘ma’, nemmeno una volta, dimostrando così con il suo ostinato silenzio che era d’accordo con la decisione presa dal Sindaco.

(c) Coperto da copyright. Severamente vietata la riproduzione parziale o totale della presente Opera, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 2 di 9.


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