Cap. VI
Uno, sguardo spento, capelli lunghi e unti, barba uguale, lo puntò.
Lino li conosceva i drogati, ne aveva visti alcuni. Non così da vicino però e non con una siringa in mano piena di sangue infetto.
Spalancò la bocca, una fornace di denti marci; e lo invitò a cacciare dalle tasche qualche spicciolo o sarebbe finita male.
Lino non intese.
Era frastornato, non impaurito.
Lo vedeva a quel derelitto umano con quella siringa in mano manco fosse Excalibur, ma era un mucchietto d’ossa, null’altro. Anche con quella siringa di sangue era soltanto un poveraccio, schifoso sì, parassita sì e anche rotto in culo; tuttavia che avrebbe mai potuto fargli? Pareva quasi che Lino non si rendesse conto del pericolo. O forse sì e non gliene fregava granché.
Quello continuava a tenere la siringa infetta sotto il naso di Lino e Lino aspettava.
Soldi. Voleva dei soldi.
“Non ho soldi”, sputò all’improvviso.
“Come non hai… soldi? Avrai pur qualche spiccio del cazzo…”
“E che te ne fai?”
“Cazzi miei…”
“Boh!!!”
Lino si cacciò una mano in tasca, raccolse gli spicci, tutto il poco che aveva e gli fece vedere: “E’ tutto.” Sul palmo della mano c’erano sì e no trenta, forse trentacinque centesimi, monetine da un centesimo, da due e forse un pezzo da cinque.
Il drogato rise isterico.
Sconfitto.
Incazzato marcio.
Si grattò la faccia incrostata di sporco con le unghie nere e lunghe. Si graffiò. E sputò a vuoto ché di saliva in bocca non ne aveva, e fece per colpire Lino che come un robot gli aveva dato le spalle.
Lo mancò.
Rovinò sulla sabbia conficcando l’ago per terra.
Imprecò.
Bestemmiò.
Dovevano essere urla le sue. Erano invece dei flebili lamenti che non arrivarono neanche all’orecchio di Lino, ormai lontano perso nei suoi pensieri.
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