LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. VII

Creato il 08 gennaio 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Cap. VII

Le giornate sarebbero trascorse tutte uguali, nell’anonimato, non fosse stato che…
Rannicchiato su una seggiola in fondo al pulman, Lino senza biglietto e con lo stomaco vuoto si lasciava trasportare per Torino. Di tanto in tanto gettava l’occhio oltre il finestrino: Torino pullulava di genti, di tutti i colori. Oramai si era rassegnato a dover fare i conti con i conquistatori.
Il sermone lo teneva sempre con sé, in una tasca o del giubbotto o dei pantaloni. Era la sua salvezza nei non rari momenti di scoramento.

Quel giorno si era svegliato madido di sudore. Non ricordava cosa avesse sognato, sapeva solo d’esser preda d’un DAP. Scivolò giù dal materasso gattonando come un bambino, incapace di respirare, convinto di fare la fine del pesce fuor d’acqua. Più aveva fame d’aria e più gli mancava. Non serviva a niente aprire la bocca, stringere i denti, cercare di masticare il vuoto che aveva invaso ogni cellula del suo corpo. Quando l’attacco cessò era stremato. Avrebbe volentieri messo qualche cosa sotto i denti, anche solo un pezzo di pane e un bicchiere di latte. Tutta colpa dei figli di Maometto. Non ricordava i sogni ma era certo che doveva aver visto la fine del mondo, e per Lino solo gli islamici erano in grado di far saltare baracca e burattini.

Sarebbe sceso alla prossima fermata, perlomeno questa era la sua intenzione, quando il pulman si fermò per caricare proprio loro. Erano in tre, parlavano in arabo mostrando denti di neve e gengive infiammate. Ridevano alla loro maniera, con disprezzo. Puzzavano più dei maiali. Ai piedi portavano delle luride ciabatte di plastica: il puzzo di piedi sporchi avrebbe fatto stomacare anche Madre Teresa di Calcutta, poco ma sicuro.

Stava per scollare le chiappe dal pulman senza problemi non fosse stato che Maometto gli fece lo sgambetto facendolo inciampare in una delle tante buste stracolme che quelli avevano buttato a terra. Poco ci mancò che ci rimettesse l’osso del collo. Quando fu di nuovo in equilibrio scoprì che inciampando aveva rovesciato suo malgrado il contenuto di una delle buste, che minavano buona parte del mezzo pubblico.
Gli fu addosso prima che potesse tentare anche solo d’abbozzare una scusa. Un arabo in ciabatte l’aveva spintonato con entrambe le mani. Per sua fortuna Lino non cadde. Quello, incazzato nero, gli ringhiava addosso spruzzandogli la faccia di saliva. A Lino parve d’essere davanti alla bocca di Cerbero: l’alito venefico di quel cane gli dava il voltastomaco e le gengive rosse, d’un rosso innaturale gli facevano fare le gambe giacomo giacomo. Non intendeva tuttavia soccombere in così malo modo, senza neanche tentare una reazione. Gonfiò il petto, nonostante il cuore gli morisse nella cassa toracica, e spalancò la bocca rimanendo però in silenzio. Frastornato, incapace di credere alla sua stessa vigliaccheria, fece un paio di passi in avanti con l’intenzione di scendere. Una mano grassoccia e sporca gli si appiccicò alla spalla destra e lo costrinse a voltarsi verso il suo aggressore.
“Non intendevo”, biascicò infine Lino che non sapeva che pesci prendere.
“Maometto l’unica vera luce e Ali suo iman. Tu questo devi ricordare e tu avere fatto male me”, sbottò l’arabo, che nell’intanto lo aveva preso per il collo.
Lino temette di farsela sotto. Possibile che il conducente del pulman non vedesse niente di quello che stava accadendo sul suo mezzo? Cominciò a mancargli l’aria, anche se non sapeva dire se per via del panico o perché quello gli premeva sul pomo d’Adamo. Sentiva la canea tirata sù dagli arabi felici di godersi lo spettacolo di lui panicato ridotto al silenzio. All’improvviso sentì un refolo freddo carezzargli il viso. Non stette a pensare e reagì.

Se l’era cavata per il rotto della cuffia.
Le porte si erano spalancate verso l’interno e Lino gli aveva sparato con tutta la forza che aveva in corpo un calcio nelle palle. Era poi sceso dal mezzo in tutta fretta ed aveva preso a correre. Non si era voltato. Non lo voleva sapere se qualcuno gli stava alle calcagna. Non voleva gettare lo sguardo all’inferno che si era lasciato alle spalle. Gli bastava il ricordo del musulmano che gli schiacciava il pomo d’Adamo.
Quando il fiato gli schiantò i polmoni, solo allora s’arrestò.
L’affanno gli bruciava il petto e le gambe non lo reggevano più. Sarebbe caduto in ginocchio non si fosse reso conto per tempo che era finito nella casbah torinese. Puzzo di pesce e di spezie gli invasero le narici mentre gli occhi roteavano impazziti spostandosi ora a destra ora a sinistra. Gli ci vollero pochi istanti davvero per rendersi conto che era circondato, che non c’erano vie di fuga. Non sapeva dire come fosse potuto accadere, ma si era cacciato proprio nel cuore della Torino dei musulmani.
Si disse che era spacciato, che non ce l’avrebbe fatta mai a portare via la pellaccia da quel posto maledetto. Nell’isterismo della situazione in cui si era cacciato arrivò al punto di osar di pensare che Maometto aveva fatto a cazzotti con Cristo per sbatterlo in quella diavolo di casbah.
Tremante e madido di sudore avanzò qualche timido passo indietro.
Quando la facciata della moschea gli si affacciò in piena faccia Lino perse l’equilibrio e andò a sbattere il culo per terra. Una crisi di panico, forse la più violenta che avesse mai accusato lo immobilizzò manco fosse crocifisso.
Dei curiosi si erano radunati intorno a lui. Lo fissavano così come si guarda a un animale dubbio, impallinato e sul punto di tirar le cuoia. Cominciò a recitare una avemaria più che mai sicuro che gli avrebbero spaccato le ossa.
Delle mani lo presero sotto le ascelle e lo misero in piedi.
Uno di quelli che l’aveva sollevato, un tipaccio barbuto e calvo, rideva fissandogli la patta dei pantaloni: Lino se l’era fatta sotto, ma a quel punto contava poco o nulla…

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